Fabrizio Festa

Che la critica musicale, ormai da anni, non possa più esercitarsi con l’autorevolezza e l’acume che ha contraddistinto il suo passato è fatto noto. D’altronde, a tale perdita di peso corrisponde il sempre minor prestigio della stampa quotidiana, divenuta oggi marginale in un territorio mediatico in cui le intersezioni tra le diverse comunicabilità e informabilità sono sempre più sovrapposte e confuse. Pochi hanno le competenze per gestire un tale intricato sistema. Tale perdita di peso ha anche un’altra e più importante causa: la marginalizzazione del teatro come luogo politico. Dagli anni Novanta del secolo scorso il teatro (e non solo il teatro) ha perso la sua principale funzione: quella di essere, indipendentemente dalla tipologia di performance, uno dei luoghi privilegiati della formazione civile, dell’esercizio del diritto/dovere alla cittadinanza. Così è stato per altri luoghi della politica, a cominciare dalla scuola (di ogni ordine e grado), dalle università e dalle accademie. Tutti i luoghi del welfare sono oggi la periferia di un sistema policentrico, in cui la credibilità dei suoi attori è determinata da fattori esogeni, allocati nell’altrove del profitto immediato e dei like. Parafrasando Bobbio, siamo di fronte all’evanescenza e alla vulnerabilità delle nostre democrazie.

In questo spazio-tempo la quotidianità è frammentata. La si misura in termini di usura dei post sui social, delle break news, dei tg lampo. L’effimero è il metro. Lo spessore della “cultura” è ormai quello della carta velina. Chi ha il tempo di coltivare? Coltivare richiede un impegno costante e di lungo periodo. Il pensiero critico ha cercato di adattarsi, riducendo ad epigramma o aforisma ciò che prima era analisi e commento. Non è solo una questione di contrazione degli ingombri. Gli è che l’incidere nella realtà sembrerebbe non aver più alcuna funzione, poiché, per dirla con Feuerbach, oggi si preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale. Al di sotto sta solo il nulla dell’eterno presente mediatico. Ecco perché la critica di spettacolo (musicale e non solo), il commento e la discussione sulle arti, potrebbe giocare un ruolo essenziale, qualora tornasse ad essere “militante”. Certo in un senso nuovo. Non si tratta del mero schierarsi con una parte politica, piuttosto che con un’altra. Se vuol tornare ad avere il ruolo che le compete deve prima di tutto rivendicare la funzione e occupare gli spazi, che all’esercizio del pensiero critico spettano.

È sommamente improbabile che tale rivendicazione possa individuare come controparte la stampa cartacea quotidiana, che si è fatta essa stessa portatrice e promotrice di tale trasvalutazione valoriale. Analogamente, la comunicazione massmediale preferisce affidare la divulgazione al celebre incompetente piuttosto che all’artista, o allo storico delle arti o al musicologo. Di conseguenza, come già accennava Alessandro Cammarano nel suo contributo, gli spazi e i tempi della rete – ai quali potremmo aggiungere quelli della radio – sembrano offrire una prima concreta possibilità di rientrare in partita da protagonisti.

Una possibilità che, però, avrebbe tutt’altro spessore se fosse condivisa dal mondo del teatro per intero, nelle sue diverse declinazioni. L’esercizio della critica serve ed è autorevole se e solo se il teatro e i luoghi delle arti sono organi vitali della vita comunitaria e si va a ricostruire quella rete di collaborazioni e comunicazione che dovrebbe unire i luoghi della cultura.