Bologna
UNA STELLA E IL SUO FUTURO*
Si dice che certi avvenimenti dividono la vita in un prima e in un dopo: qualcosa del genere si è verificato nella musicologia italiana con la fondazione del «Saggiatore musicale». C’è stata un’epoca prima del «Saggiatore musicale», ce n’è e ce ne sarà un’altra col «Saggiatore musicale».
«Il Saggiatore musicale» nacque dieci anni fa dal bisogno di rivitalizzare la musicologia italiana. Intorno al 1990, parecchi musicologi italiani erano insoddisfatti e turbati dalla declinazione positivistica nella quale da alcuni anni si stava rifugiando la disciplina; laddove ‘declinazione positivistica’ è una denominazione fin troppo lusinghiera per designare una musicologia dedita più a potenziare la quantità che a perseguire la qualità e l’approfondimento critico. Era una tendenza che trovava nella Società italiana di Musicologia un alveo favorevole, e comportava il rischio di una deriva populistica. La «musicologia dei molti convegni, dei molti cataloghi, delle molte bibliografie» apriva cantiere su cantiere, e così facendo dava «a molti un poco di lavoro subito», senza con ciò favorire il contraddittorio intellettuale (cito dal primo editoriale del «Saggiatore musicale»). È bensì vero che la «Rivista italiana di Musicologia» si opponeva a questa tendenza: ma in seno alla Società che la promuoveva essa rappresentava una posizione del tutto minoritaria, e scomoda.
Nel contempo, si andava manifestando allora in forme ancora enigmatiche ciò che nel frattempo è divenuto palese a tutti. Cresceva, anzi veniva alimentata da un gruppo di aderenti alla Società di Musicologia, la contrapposizione dei Conservatorii, a quel tempo in attesa di una palingenetica riforma, nei confronti della musicologia universitaria. Questa contrapposizione, agli occhi di molti soci universitari e conservatoriali, appariva del tutto pretestuosa, e pericolosissima per la cultura musicale: oggi, di questa sciagurata conflittualità sono ben visibili le dirompenti conseguenze in campo legislativo, amministrativo e soprattutto culturale.
All’interno della Società italiana di Musicologia, la situazione, bloccata, non poteva che evolvere verso conseguenze estreme: l’assemblea di Napoli del 13 dicembre 1992 sancì la sconfitta dell’ala “universitaria” (la chiamo così per semplicità) e la spaccatura della Società. L’ala universitaria aveva tentato di reagire, di dialogare, di far comprendere: fu inutile. Nei mesi che seguirono, molti studiosi – dell’Università come del Conservatorio – si dimisero dalla Società di Musicologia, o non rinnovarono l’iscrizione, accomunati dal sentimento amaro della sconfitta intellettuale, della perdita, del lutto. La sensazione dei fuoriusciti fu di esser seduti “su un cumulo di macerie”: così mi disse un giorno Fabrizio Della Seta, uno dei musicologi più impegnati. Gli risposi, in un moto d’orgoglio, che a me, messinese, adusa ai capricci di una terra altamente sismica, le macerie fanno venire in mente solo una cosa: la ricostruzione. Ci fu un silenzio lunghissimo all’altro capo del filo, poi, finalmente, due parole: “ricostruiamo, allora”. Ma non bastavano certo le parole a rimettere in piedi un’associazione, un consorzio intellettuale, una rivista, un’immagine virtuosa della musicologia italiana. Già da tempo Lorenzo Bianconi e io, nell’analizzare la situazione, avevamo considerato la possibilità di fondare qualcosa di nuovo, soprattutto una nuova rivista; pian piano, confortati dalle parole di Della Seta, ne discutemmo con i colleghi che avevano condiviso la prima linea, Di Benedetto, Gallo, Leydi, Serravezza, Degrada, Walker, Pozzi, Zoppelli, Cecchi, Franco Rossi, Roccatagliati e tanti altri. Lunghe telefonate, incontri all’ora del tè, qualche aperitivo in piedi al bar, sospiri trattenuti, amarezza nascosta dietro ai sorrisi, ma sempre e comunque le due magiche parole: “ricostruiamo, allora”.
La svolta si ebbe alla fine del 1993: Bianconi, Serravezza, Gallo, Di Benedetto, Leydi chiesero un colloquio al Rettore dell’Ateneo bolognese, Fabio Roversi Monaco. Tutti ne conoscevamo l’illuminata competenza, la straordinaria capacità di guardare al futuro, la determinazione fattiva. Roversi Monaco volle sostenere l’operazione: da esperto amministrativista ne suggerì la formula – una rivista appoggiata da un’Associazione privata senza fine di lucro, che avesse però un rapporto intrinseco con l’Università –, assicurò un appoggio per i primi anni, chiese che la rivista instaurasse un rapporto forte col dottorato di ricerca in Musicologia (il che è puntualmente avvenuto: un 15% degli articoli pubblicati in dieci anni sono di dottorandi o dottori di ricerca bolognesi). Senza Roversi Monaco, «Il Saggiatore musicale» non sarebbe nato: la musicologia italiana e internazionale gliene deve tributare il merito e l’onore.
A Roversi Monaco è poi succeduto, alla testa dell’Ateneo bolognese, Pier Ugo Calzolari: ingegnere, raffinato cultore d’arte, esperto intenditore di musica, sta sostenendo anch’egli «Il Saggiatore musicale» con attenzione, cura, affetto: lo sentiamo vicino, e lo ringraziamo di cuore. Desidero ringraziare anche il Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, prof. Giuseppe Sassatelli, e il suo predecessore, prof. Walter Tega, oggi prorettore, e i membri della Commissione Ricerca dell’Alma Mater Studiorum. Ringrazio poi in particolare i Direttori che si sono succeduti alla testa del Dipartimento di Musica e Spettacolo: senza la cornice istituzionale e scientifica offerta dal Dipartimento, senza la collaborazione della nostra biblioteca, senza la convergenza col Centro dipartimentale La Soffitta diretto da Lamberto Trezzini, la nostra impresa non sarebbe cresciuta così prospera. Né avrebbe avuto lo stesso sviluppo senza il sostegno dei principali sovventori, che desidero ringraziare anche a nome di tutti i colleghi coinvolti nelle nostre attività: l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, il Ministero per i Beni e le Attività culturali, la Fondazione della Cassa di Risparmio in Bologna.
Dopo l’incontro del 1993 con Roversi Monaco si diede avvio all’Associazione: con la consulenza del notaio Giorgio Forni fu steso lo statuto, ne furono soci fondatori gli stessi Roversi Monaco e Forni, insieme con Bianconi, Di Benedetto, Gallo, Leydi, Serravezza, Ezio Raimondi. Il primo presidente fu Renato Di Benedetto, docente ed intellettuale in cui la squisita cultura s’intreccia con un impulso etico singolarmente vigoroso; gli subentrò nel 1996 Pier Carlo Brunelli, un amministratore illuminato, appassionato della buona musica, che in precedenza aveva presieduto il Conservatorio “G. B. Martini” e i comitati promotori delle celebrazioni martiniane (1984) e del XIV congresso della Società internazionale di Musicologia (1987); dal 2001 presiede «Il Saggiatore musicale» Fabio Roversi Monaco.
Occorreva però avviare la rivista. Non è un’operazione facile: c’è bisogno di un comitato direttivo, di una segreteria di redazione, di un direttore; occorre soprattutto un editore che in essa creda e che la sostenga, che le assicuri una qualità di stampa eccellente e la giusta circolazione in Italia e all’estero. Quest’editore sarebbe stato il fiorentino Leo S. Olschki, nome illustre dell’editoria scientifica italiana, attento da sempre, prima nella persona di Aldo, poi con Alessandro e Daniele, alle discipline musicali. Con Daniele Olschki, negli anni della crisi della Società italiana di Musicologia, ho avuto uno scambio intellettuale fervido. Sensibile e sagace, comprendeva il senso degli accadimenti e mi esponeva le sue idee in lunghe e vivaci discussioni. Un avvenimento in particolare aveva cementato il rapporto tra Daniele e i dissidenti. Prima dell’assemblea di Napoli, nel tentativo di mediare e ricucire, tre soci universitari, Di Benedetto Serravezza Bianconi, avevano elaborato una proposta di modifica dello statuto societario che, contemplando le esigenze delle diverse parti in gioco, consentisse di stabilire un equilibrio e di superare l’impasse in cui la Società s’era incagliata. Daniele lesse il testo, lo trovò plausibile. I tre colleghi chiesero alla «Rivista italiana di Musicologia», edita dallo stesso Olschki, di pubblicarlo perché i soci ne prendessero visione in vista della discussione assembleare: ma l’allora direttore della «Rivista italiana di Musicologia» , pur avendo sottoscritta la proposta, preferì non pubblicarla. Daniele Olschki fece allora generosamente tirare in 1000 copie la proposta di statuto, che fu così inviata ai soci. Con questo gesto, l’editore dimostrava un impegno diretto a sostegno di una linea politico-culturale nella quale credeva: dimostrava anche che un vero editore non si limita a stampare e distribuire i libri e i periodici che gli vengono affidati, ma fa propria una linea di politica culturale, entra così nell’agone e, se occorre, sa prendere decisioni scomode o controcorrente. Quando si dovette pensare a un editore per «Il Saggiatore musicale», il nome di Daniele Olschki si impose da sé. Gliene parlai per prima; mi prospettò, com’è nella sua indole, tutte le difficoltà che avremmo incontrato, ma mi disse che intendeva affrontare la sfida. E che, anzi, già da tempo ci rifletteva. Oggi, dieci anni dopo, possiamo dire che la nostra rivista, senza l’attenzione di casa Olschki, e di Daniele in particolare, non sarebbe così bella e così importante.
La rivista e l’associazione nascevano strettamente congiunte, rimandavano l’una all’altra. Da direttore, parlerò oggi della rivista, ma non potrò talvolta esimermi dal riferirmi anche all’associazione, perché le due entità sono intimamente connesse, e l’una trae linfa dall’altra. Per l’avvio di entrambe si scelse per titolo «Il Saggiatore musicale», e nell’editoriale al primo numero abbiamo spiegato il perché. Esso deriva dal discorso di Galileo sulle comete, ossia – come dice l’Algarotti – dalla più bell’opera polemica che l’Italia abbia avuto: intendevamo con ciò sottolineare il forte rapporto della nostra rivista con lo spirito della ricerca scientifica, con l’indagine severa e scevra da condizionamenti, con la discussione magari aspra ma intellettualmente onesta, insomma con l’atteggiamento critico che è consustanziale al mestiere del ‘saggiatore’, ossia del pesatore d’oro. Un simbolo siderale fu scelto anche per la copertina: la scampanellante rota aurea del duomo di Fulda effigiata nella Musurgia universalis del Kircher. «Il Saggiatore musicale» nasceva dunque sotto l’immagine della stella, simbolo di energia calore luce, ma anche dell’irradiazione aperta sull’universo del sapere. In opposizione allo pseudopositivismo imperante, il motto originario fu questo: «Il gusto del mio studiare è l’intendere, non il trovare» (Lorenzo Bellini, 1670); il riferimento implicito era alla corrente ermeneutica che aveva i suoi campioni, in Germania e negli Stati Uniti, in Hans Heinrich Eggebrecht e in Joseph Kerman.
Fin dalla nascita, «Il Saggiatore musicale» si è attenuto ad alcune linee-guida: l’elevata qualità, sia scientifica sia redazionale; l’apertura internazionale; l’intervento politico alimentato dalla curiosità interdisciplinare; la discussione approfondita di pubblicazioni italiane e straniere. Ne aggiungo un’altra: la vocazione pedagogica, che permea tutta la nostra attività e si esprime in vari momenti e modi, e nelle situazioni più diverse. Per conseguire questi scopi fu costituito un comitato direttivo di colleghi italiani qualificatissimi, assecondato da un comitato di consulenti esteri e da una segreteria di redazione.
La qualità scientifica. – L’aspirazione alla qualità è il punto fondante del progetto. Non è uno scopo facile da raggiungere, ed implica il concorso di molti fattori. Perlomeno quattro: (1) articoli che abbiano di partenza un nucleo forte, che non si basino soltanto sull’accumulo dei dati, ma che questi dati contestualizzino e interpretino, al fine di accrescere il sapere come conoscenza e come comprensione; (2) la curiosità intellettuale e il gusto della discussione da parte dei membri del comitato direttivo e dei consulenti stranieri: essi si pronunciano sui dattiloscritti pervenuti, li criticano, li sottopongono a verifica, li chiosano; i commenti vengono inviati agli autori, che a loro volta li ridiscutono e li elaborano, aggiustando su questa base il proprio lavoro; (3) l’umiltà degli autori nel sottoporsi alla verifica da parte dei consulenti, e per converso la consapevolezza di costoro che il commento non deve ferire chi lo riceve, e va quindi stilato in forma magari severa, ma sempre rispettosa della personalità scientifica di ciascuno (è questo forse il passo più difficile e delicato: sono spesso perfetti gli anglosassoni, assai meno gli italiani); (4) il lavoro accuratissimo, perfin feroce, da parte della segreteria di redazione, che controlla i dati, rivede il dettato, fa emergere eventuali contraddizioni nascoste nelle pieghe del discorso e le segnala agli autori, e poi corregge le bozze con implacata acribia per ridurre al minimo la possibilità dell’errore. Siamo convinti che il lavoro redazionale non sia manovalanza, lavoro di serie B, ma sia essenziale tanto ai fini scientifici quanto per il rispetto sempre dovuto all’oggetto e al lettore.
L’apertura internazionale. – «Il Saggiatore musicale» è una rivista italiana, ma dichiara una vocazione internazionale: esso è oggi un punto di confluenza e di intersezione fra la musicologia italiana e le musicologie del mondo. (Basti un dato: in dieci anni abbiamo pubblicato un 40% di articoli di autori stranieri.) L’internazionalità della rivista si esprime su vari piani.
(1) Il comitato dei consulenti stranieri. Fin dalla prima annata ne hanno fatto parte studiosi di gran nome, austriaci belgi cinesi francesi inglesi magrebini russi spagnoli statunitensi svizzeri tedeschi. Ciascun collega ha suggerito articoli e attirato l’attenzione su ricerche in corso, ha consigliato migliorie agli articoli sottoposti, ha generosamente offerto contributi propri, ha concesso che ottimi saggi pubblicati magari in sedi poco frequentate fossero ripubblicati in lingua italiana nella nostra rivista: è il caso, ad esempio, degli splendidi articoli di Richard Taruskin sul Sacre du printemps (IV, 1997), di Wilhelm Seidel su Adam Smith (III, 1996), di Joseph Kerman sui concerti per pianoforte di Mozart (I, 1994), di Evgenij Levašëv su Borodin (V, 1998). Ma non soltanto i consulenti ufficialmente scritti nel nostro comitato suggeriscono articoli o forniscono pareri. Tanti altri colleghi stranieri, anche senza far parte dei comitati, seguono con interesse il nostro lavoro. Gli spagnoli, in particolare, sono fra i più attivi: dobbiamo ad esempio al suggerimento di Carmen Rodríguez Suso la pubblicazione del saggio di una psicanalista francese, Claire Jéquier, sulle Vergini savie e folli dello Sponsus, esempio notevole d’interdisciplinarismo applicato alla musica medievale (III, 1996).
(2) I temi affrontati. Farò due esempi. Abbiamo voluto che nel «Saggiatore» emergessero anche temi che, per tradizione, sono considerati dominio di altre musicologie. Nulla è più rivoluzionario dell’ovvio. Da decenni la musicologia italiana si è dedicata di preferenza a indagare musiche italiane; così, abbiamo finito per trascurare gli studi sulla musica sinfonica e cameristica dell’Ottocento tedesco, di cui detengono quasi l’esclusiva la musicologia tedesca e angloamericana. Per contrastare questa tendenza, abbiamo agito in due direzioni: (a) abbiamo richiesto articoli ai grandi esperti del campo, affinché «Il Saggiatore musicale» si qualificasse come rivista di riferimento anche su tali tematiche: certo, c’è ancora molto da fare, ma siamo orgogliosi di aver offerto ai lettori due saggi straordinari – di Susan Youens su Hugo Wolf (VI, 1999), di John Daverio su Schumann (IV, 1997) – che ogni studioso interessato all’argomento non potrà ignorare; (b) abbiamo stimolato studiosi italiani a misurarsi in questo territorio “estraneo”: citerei come una perla il saggio di Maurizio Giani sui tanti Lieder tratti dalla ballata Der Fischer di Goethe, nell’arco di tempo che va da Reichardt a Schubert, da Schumann a Strauss (III, 1996); o il saggio di un germanista palermitano attivo in Vestfalia, Giovanni di Stefano, sull’immagine del «suono da lontano» nella liederistica tedesca (II, 1995).
Un altro territorio poco frequentato dagli italiani è quello dei gender studies, che per anni è stato una specialità delle colleghe e dei colleghi nordamericani: abbiamo affrontato la sfida cercando di superare il rischio in agguato, cioè di indulgere alla “moda” senza arrecare nuova conoscenza. Da un lato, abbiamo ottenuto due contributi, uno panoramico e l’altro storico-critico, da due esperti d’oltreoceano, Andrew Dell’Antonio e Suzanne Cusick (I, 1994 e V, 1998; e cfr. il Bollettino dell’annata VIII, 2001); dall’altro, abbiamo voluto, e con forza, che di questo tema appassionante e delicato si desse una lettura europea, italiana: anche per dimostrare che una diversa visuale, una diversa angolazione culturale può sempre arricchire il quadro, ampliare e modificare la visione: ricorderò in particolare l’intervento di Marco Beghelli sull’“erotismo canoro”, e quello di Davide Daolmi e Emanuele Senici, «L’omosessualità è un modo di cantare», uno dei più sofferti quanto alla gestazione, ma anche uno di quelli ai quali sono personalmente più legata (entrambi in VII, 2000).
(3) Il terzo punto d’internazionalità è ovvio, ma non scontato: «Il Saggiatore musicale» pubblica in cinque lingue, francese inglese italiano spagnolo tedesco. Sembrano molte, in realtà sono poche, sol che si pensi alle tante lingue con cui si esprime in Europa la nostra disciplina (polacco cèco russo portoghese svedese magiaro serbocroato eccetera).
Intervento politico e curiosità interdisciplinare. – Abbiamo concepito «Il Saggiatore musicale» non soltanto come rivista erudita, ma anche come forum politico-culturale. Siamo convinti che la musica e la musicologia, non avulse dalla cultura globalmente intesa, risentono delle dinamiche e delle contraddizioni che animano ed agitano il quadro politico-culturale. È un punto, questo, in cui spesso l’attività dell’associazione e della rivista si congiungono. L’intervento politico nel «Saggiatore musicale» ha un luogo privilegiato nella rubrica degli Interventi: è questa la sezione più graffiante, è dunque facile che inneschi polemiche. Varie sono le direzioni in cui l’intervento politico si esplica: ne citerò solo alcune.
(1) Organizzazione politico-culturale interna alla disciplina. – Mi riferirò essenzialmente a quattro interventi firmati da Iain Fenlon, Xoán Carreira, Lewis Lockwood e Tilman Seebass. Fenlon si è pronunciato sui sistemi di valutazione della didattica e della ricerca introdotti nelle Università britanniche nell’era thatcheriana, e sulle gravi insidie che derivano dalla loro automatica estensione alle discipline umanistiche, sia sotto il profilo squisitamente culturale, sia nella realtà di tutti i giorni (per dirne una, la perdita di posti di lavoro). Il quadro tracciato dal collega di Cambridge è duro, tagliente ma realistico: addita i rischi di un indirizzo economicistico che si proclama liberista ma che si è dimostrato velleitario e miope nelle sue ricadute culturali; certo, sarà stato favorito da dinamiche di portata geopolitica, ma non basta questo ad assolverlo. Quest’indirizzo politico-economico è sopraggiunto in Italia con qualche anno di ritardo ma si sta velocemente radicando, e se ne osservano già i pesanti effetti collaterali. «Il Saggiatore musicale» può e deve denunziarne i rischi, se non altro per diffonderne la consapevolezza tra i colleghi (IV, 1997). Dal canto suo, Xoán Carreira ha offerto un quadro impietoso della musicologia in Spagna, ossia in un Paese che fino al 1975 ha dovuto fare i conti con l’isolamento e il conformismo indotti dalla dittatura, e che nel campo della ricerca storico-musicale ha dovuto scontare l’incisiva ingerenza della Chiesa cattolica. (Il quadro sincronico delineato da Carreira è confermato dall’ampio schizzo storico tracciato da Juan José Carreras nell’annata VIII, 2001.) L’intervento di Carreira – un coraggioso outsider, biochimico, non musicologo – ha dato luogo alle vivaci repliche di qualche collega spagnolo: le abbiamo pubblicate integralmente, affinché il lettore potesse giudicare da sé le posizioni antitetiche (II, 1995). I due interventi di Lockwood e Seebass, focalizzati soprattutto sulla logica di sviluppo interna alla disciplina, si differenziano da Fenlon e Carreira nel taglio e nell’espressione più sobria (VI, 1999). Lockwood, che si rifà idealmente al famoso pamphlet Contemplating Music di Kerman (1985), discute le linee di tendenza della musicologia storica nordamericana e ne evidenzia in controluce la filigrana che le sottende. Seebass, in un intervento che venne letto ad apertura del Colloquio di musicologia di cinque anni fa, addita le sfide che la ricerca etnomusicologica porrà ai ricercatori del secolo XXI, e le difficoltà in agguato: non ultime – e con questo ci si ricollega ai temi trattati da Fenlon e Lockwood – «la mole crescente di lavoro gestionale e didattico» che inesorabilmente viene a gravare «sugli esponenti più lungimiranti della disciplina»; la «specializzazione precoce» che nell’America del Nord tende ad «assottigliare le basi umanistiche di qualsiasi dialogo» tra i diversi settori della disciplina; l’ansia che sopraffà il musicologo nel padroneggiare l’“altro”, e il conseguente diffondersi di un «pensiero territoriale» e di un’«angustia di vedute che, per esempio, in Germania ha portato alla scomparsa dell’etnomusicologia e del folklore musicale», mentre in Italia c’è stata un’epoca in cui «si accettavano dissertazioni dottorali solo su soggetti italiani».
(2) Rilevanza politica della musica. – Ovviamente, non c’è solo la politica interna alla disciplina: esiste, inalienabile, una dimensione specificamente politica dell’arte musicale. Alcuni interventi hanno affrontato direttamente l’incidenza che la musica ha sulla vita associata e, viceversa, la politica esercita sulla musica. Citerò tre casi esemplari, tutti collegati a giornate di studio organizzate dall’Associazione: il ruolo e la qualità della musica nella liturgia cattolica postconciliare in Italia; il problema dell’inquinamento musicale; il concetto di ‘bene musicale’, entro la categoria più ampia dei beni culturali.
(a) La questione della musica liturgica odierna rappresenta un tema controverso e delicatissimo, che, se coinvolge la Chiesa tutta – dalla Parola di Dio alla comunità dei fedeli –, investe direttamente anche la dimensione estetica della musica, dunque anche la responsabilità dei musicologi. Dei contributi presentati nella prima giornata di studio, celebrata nel 1999, abbiamo pubblicato gli interventi di due personalità eminenti del mondo cattolico, mons. Giulio Cattin – un musicologo medievista di livello internazionale, membro del nostro comitato direttivo – e S. E. Ernesto Vecchi, vescovo ausiliare di Bologna, fine intenditore di musica (V, 1998). La discussione, proseguita in una seconda giornata nel 2003, non accenna ad esaurirsi: nell’ottobre 2004, la Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia ha promosso, assieme al «Saggiatore musicale», un vivacissimo seminario – curato da Cesarino Ruini e Antonio Lovato – rivolto direttamente agli autori di musiche per il culto.
(b) L’inquinamento musicale – l’abuso di musiche indesiderate in luoghi pubblici, con finalità commerciali o politico-sociali – è un altro tema politico della più alta importanza: l’abbiamo proposto una prima volta in una giornata di studio nel 1998, con relazioni di Tullia Magrini e Valerio Calzolaio (pubblicate nel Bollettino dell’annata IV, 1997); due anni fa, gli abbiamo dedicato un convegno interdisciplinare di tre giorni, di cui sono ora usciti gli Atti, a cura di Carla Cuomo (Bologna, CLUEB, 2004; le relazioni di base sono apparse in IX, 2002). Il fenomeno investe il rapporto del cittadino con l’habitat, con la società civile, con la pubblica amministrazione; ha risvolti che interessano la medicina – la salute psichica in particolare –, l’economia, la sociologia, l’ingegneria, la fisica, la pedagogia; e richiede una presa di coscienza collettiva in cui spetta un ruolo rilevante agli Enti locali. Nel caso del convegno del 2002, i comuni di Bologna e di San Lazzaro di Savena, nonché la Provincia e la Regione hanno dato un patrocinio e un sostegno importante.
(c) Un terzo tema politico rilevantissimo, sia per il lavoro dei musicologi sia per la salvaguardia, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale del Paese, è quello dei ‘beni musicali’. La problematica si radica qui nello scompenso tra l’immaterialità dell’opera d’arte musicale e la consistenza oggettiva delle sue testimonianze bibliografiche, documentarie, figurative, organologiche, audiovisive, che sono spesso opere d’arte in sé seppure non coincidono mai appieno con l’opera d’arte musicale in senso stretto. A questi problemi, e a quelli connessi della museologia musicale, sono stati dedicati incontri di studio e convegni dal 1998 al 2004: nella rivista è apparso un primo inquadramento del problema, dovuto a Lorenzo Bianconi (nel Bollettino dell’annata IV, 1997), mentre in questo stesso fascicolo si legge un aggiornamento, alla luce della mutata legislazione, fornito da una giovane amministrativista, Annalisa Gualdani, e da esperti insigni, Marco Cammelli in primis.
(3) La politica dei rapporti fra la nostra disciplina e discipline limitrofe. – «Il Saggiatore musicale» è tornato a più riprese a discutere dei confini della nostra disciplina e della possibilità del loro oltrepassamento, nonché sulla logica che lega la musicologia agli altri rami del sapere, ad esempio la filosofia, la psicologia, la filologia dei libretti, la teatralogia (rimando fra i tanti agli interventi di Gozza-Serravezza, Ricci Bitti, Bianconi, Gallarati, nelle annate IV, 1997, II, 1995, e VIII, 2001). Mi soffermo qui per un attimo sull’intervento di Annibaldi, Le impertinenze della musicologia “antropocentrica” (III, 1996), che ha innescato una polemica vivace. L’autore attacca l’importante indagine di Warren Kirkendale sui musicisti alla corte medicea di Firenze, pubblicata proprio dal nostro editore, Leo S. Olschki: rimprovera all’autore di ridurre la storia della musica a mera erudizione documentaria, trascurando la storia delle mentalità e quindi la prospettiva socio-antropologica. Il nodo della disputa è evidente: si confrontano due concezioni della musicologia, due differenti approcci alla cultura, due mentalità: l’una (Kirkendale) legata al territorio disciplinare, basata su quella coscienziosa raccolta di dati che, combinati secondo la logica interna alla disciplina, dovrebbe condurre alla ricostruzione del processo storico; l’altra (Annibaldi), propensa a sconfinare in territori extra-musicologici affinché il dato documentario reperito venga filtrato da altri saperi, storici e antropologici in primis.
La curiosità interdisciplinare, che nell’intervento di Annibaldi è rinfocolata dalla verve polemica, è una vocazione primaria del «Saggiatore musicale». Siamo convinti che la cultura non si organizza in compartimenti separati, che ogni sapere è collegato ad altri saperi, che discipline diverse gettano luci diverse su un medesimo oggetto d’indagine. Intendiamoci: prendiamo sul serio la logica interna a ciascuna disciplina, schiviamo cioè come la peste quel tipo d’interdisciplinarità à la carte che s’intende come amena forma di escursionismo intellettuale; Bouvard e Péchuchet non sono il nostro modello. Siamo però convinti che giovi coltivare la flessibilità intellettuale, la curiosità disciplinare, l’apertura verso territori nuovi, magari distanti dal nostro. Se il lettore osserverà anche di sfuggita gli indici del «Saggiatore musicale», vedrà che non soltanto i titoli di certi articoli rimandano espressamente ad altri rami del sapere, ma che spesso abbiamo avuto per autori esponenti d’altre discipline: storici, italianisti, germanisti, ispanisti, fisici, psicologi, psicoanalisti, filologi. Crediamo che per la fisiologia della cultura, e per quella della nostra disciplina, lo scambio fra studiosi di ambiti differenti sia vitale.
Discussione delle pubblicazioni. – «Il Saggiatore musicale» non concepisce la recensione come eulogia pubblicitaria, come “piacere fatto all’amico”. Lo abbiamo detto nell’editoriale del 1997, lo ripeteremo sempre: se è accaduto, è accaduto di raro, e senza che la pratica eulogistica fosse stata sollecitata o desiderata. In questo senso, la posizione del direttore e del responsabile delle recensioni, Fabrizio Della Seta, coincide perfettamente. La recensione è uno strumento al servizio del lettore e della cultura. Essa deve consentire di leggere in maniera più consapevole il libro recensito, ne deve arricchire la prospettiva e, se del caso, correggerla. Farò qualche esempio. Le recensioni che Francesco Degrada, Davide Daolmi, Alessandro Roccatagliati hanno dedicato all’edizione del carteggio Hasse-Ortes (VI, 1999), all’edizione dei drammi di Giulio Rospigliosi (IX, 2002), al Repertorio metrico verdiano (X, 2003) diventeranno lettura d’obbligo per chi vorrà usare quei libri, e verranno citate insieme ad essi. Soprattutto in casi come questi – volumi pretenziosi ma fallaci su argomenti rilevanti – la mess’a punto dell’esperto è un servizio essenziale offerto al lettore e alla scienza.
Consapevole di ciò, «Il Saggiatore musicale» sceglie per recensori esperti assai qualificati, e quando giova li cerca al di fuori della musicologia. Un caso esemplare lo offre la recensione del saggio di Alberto Basso, L’invenzione della Gioia: è questo un libro ambizioso sull’intreccio tra massoneria e musica. Lo abbiamo affidato a Giuseppe Giarrizzo, insigne storico moderno, gran conoscitore della storia della massoneria: nessuno meglio di lui avrebbe potuto rilevare, per così dire dal di dentro, i limiti e i pregi della ricostruzione fatta da Basso storico della musica (III, 1996). Fra le tante altre recensioni affidate ad esperti non musicologi, ci piace rammentarne ancora due: quella del nostro germanista Alberto Destro al bel libro di Susan Youens su quattro poeti schubertiani (IV, 1997), e quella dell’ispanista fiorentina Maria Grazia Profeti al saggio di Louise Stein sulle musiche teatrali nella comedia del siglo de oro (II, 1995). Di preferenza, affidiamo i libri italiani a recensori stranieri, i libri stranieri a recensori italiani: le prospettive culturali incrociate favoriscono l’arricchimento e lo scambio intellettuale.
La vocazione pedagogica. – Ho accennato alla vocazione pedagogica del «Saggiatore musicale». Alludo in primis ad un atteggiamento pedagogico interno alla disciplina, inteso cioè a migliorare la disciplina dal di dentro. Non occorre che mi ci soffermi a lungo perché, insita nel suo DNA, questa vocazione pedagogica affiora dai vari punti fin qui toccati. Ricorderò brevemente tre aspetti. (1) La stessa nascita del «Saggiatore musicale» – l’ho detto all’inizio – fu dovuta all’ansia di rivitalizzare la musicologia italiana in una fase che, per quanto turbolenta, a noi parve segnata dal torpore intellettuale. (2) La revisione degli articoli da parte del comitato direttivo e dei consulenti, la discussione sui loro commenti, il va-e-vieni tra redazione e autore consentono di “migliorare” il contributo, perciò inducono la costruzione e la costante ristrutturazione degli apprendimenti d’ognuno. Questo vale soprattutto quando lo sguardo incrociato proviene da altre discipline: l’autore “musicologo” è indotto a mettersi in discussione, a spogliarsi delle proprie certezze disciplinari, ad accettare la ferita narcisistica per poi ricomporla in una riconquistata fiducia – più salda e vera – nelle proprie capacità intellettuali. (3) Lo scambio generazionale si attua accostando ad autori affermatissimi giovani freschi di studi, e sottoponendoli tutti alle forche caudine della critica. Tante volte abbiamo faticato mesi e mesi perché articoli buoni sì, ma non privi di lati problematici, pervenissero ad un livello di eccellenza. Ci sono stati alcuni mugugni, molti ritardi nella pubblicazione, ma alla fine il risultato ha compensato le fatiche. Credo che la disciplina si rivitalizzi non solo facendo scrivere da noi i grandi musicologi del pianeta, ma “insegnando il mestiere” ai giovani: insegnando loro la serietà del lavoro scientifico, l’esigente meticolosità, l’occhiuta acribia, l’autocritica feroce. È anche capitato che, dopo aver ricevuto i pareri, qualche giovane autore abbia ritirato il proprio articolo per pubblicarlo altrove: ma lo ha fatto mettendo a frutto i suggerimenti dei nostri esperti. Il gesto non sarà stato gran che elegante, ma alla fine, se l’articolo migliorato compare altrove, vuol dire che esercitiamo una pedagogia transitiva, a beneficio anche di altri periodici.
Ecco, in sintesi questa è la stella del «Saggiatore musicale», costruita con gioiosa fatica da giovani e meno giovani, da grandi musicologi e studiosi emergenti, da chi assiduamente ci lavora e dai semplici simpatizzanti. Mi resta di accennare in breve al futuro di questa stella, così come noi lo immaginiamo; ma non lo voglio fare senza aver prima ricordato i colleghi che tanto hanno dato perché la stella potesse risplendere, e che nel frattempo ci hanno lasciato: penso a Roberto Leydi (1928-2003), che è stato socio fondatore dell’Associazione e al quale dobbiamo l’idea dei Colloqui annuali di musicologia; a Hans Heinrich Eggebrecht (1919-1999), al quale «Il Saggiatore musicale» deve il dono di due preziose primizie della sua splendida vecchiaia (IV, 1997 e VII, 2000); a John Daverio (1955-2003), che nel 2002 aveva accettato d’entrare nel comitato dei consulenti, e dopo pochi mesi, quarantottenne, è tragicamente scomparso. Tutti e tre saranno idealmente presenti nel cammino dei prossimi anni.
Il futuro della stella. – Il futuro del «Saggiatore musicale» è iscritto nella sua genesi e nel suo sviluppo. Non prevediamo di sconvolgere la linea politico-culturale; e tuttavia bisogna riflettere su alcuni scopi specifici e prevedere le “curvature” più efficaci. Penso soprattutto a tre ambiti.
(1) L’internazionalità. – Nei prossimi anni «Il Saggiatore musicale» dovrà potenziare i suoi agganci internazionali ed ergersi sempre più a punto di convergenza e di scambio delle varie musicologie. Penso in particolare alle musicologie europee. Se è infatti vitale e scontato per gli studi musicologici il riferimento costante alla ricerca nell’area anglosassone, e a quella statunitense in particolare, pur tuttavia, nella presente fase costitutiva della nuova Europa, occorrerà intensificare i rapporti con i colleghi del nostro continente: non soltanto, per dire, con la Musikwissenschaft dell’area tedesca, che dalla sua blasonatissima torre d’avorio continua ad esercitare un’attrazione irresistibile su molti di noi, ma anche con musicologie un po’ fuori mano, con le quali colloquiamo più di rado, non fosse che per le difficoltà della lingua: penso alla musicologia polacca, assai vigorosa nei campi dell’estetica e della semiotica, o a quella russa, assai attiva su tanti fronti, ma da noi praticamente ignorata. Certo, lo scoglio delle lingue è arduo, ma bisognerà sforzarsi di superarlo: magari intensificando le traduzioni di articoli ragguardevoli, e spingendo i nostri giovani ricercatori ad occuparsi di campi e settori prediletti da altre musicologie. Occorrerà insomma spingere noi stessi, e di riflesso i colleghi di altre nazionalità, a superare il senso di chiusura sulle proprie cose e ad aprirsi a punti di vista differenti: in altre parole, occorrerà esportare quanto più possibile il metodo della discussione, su temi rilevanti. (M’ingannerò, ma mi sembra che da alcuni anni serpeggi nelle musicologie occidentali una tendenza al ripiegamento centripeto; le sue manifestazioni più tipiche sono: le numerosissime quanto ignorate Festschriften; i saggetti di circostanza che racimolano briciole di ricerca disarticolate; il disinteresse per il genere letterario della recensione, strumento primario dello scambio e della discussione; la pervicacia nel seguire le ultime mode, salvo abbandonarle appena ne sopraggiunge una ancor più nuova.) Nel quadro di questo sforzo di internazionalizzazione andranno potenziati nel «Saggiatore musicale» almeno tre settori: la medievistica, nella quale, forti della grande lezione di Cattin e Gallo, gli italiani dovranno tornare a misurarsi e a competere con la musicologia anglosassone e tedesca; gli studi sul Novecento, un campo in cui l’interesse per il singolo autore, e il conseguente rischio del frammentismo monografico, dovrà via via lasciare il posto all’elaborazione di quadri storiografici più ampi e significativi (vale, direi, non solo per gli italiani ma anche per gli stranieri); le ricerche etnomusicologiche, infine, che godono di un’esuberante vitalità, è vero, ma sono condotte in tendenziale autonomia, su riviste specializzate, su siti internet, su pubblicazioni che passano inosservate ai musicologi tout court, e che invece devono entrare a pieno titolo nei grandi circuiti delle riviste musicologiche, gomito a gomito con i contributi di orientamento storico e sistematico.
(2) Potenziamento dell’intervento politico. – L’intervento politico continuerà a godere di grande attenzione nelle pagine del «Saggiatore musicale». In Italia, parecchi motivi spingono in questa direzione, non ultime le ragioni della politica generale, e le idiosincrasie della pubblicistica nei confronti della musica. Lo vediamo ogni giorno: la cultura, che fino a una dozzina d’anni fa era un dominio da tutti tacitamente collocato al riparo dal conflitto politico, è oggi sempre più spesso un campo di confronto, se non addirittura di lotta, tra forze politiche contrapposte; il che ha aspetti positivi e negativi. Positivi, perché certamente si è indotti a prestarle più attenzione; negativi, perché così la cultura corre il rischio d’essere strumentalizzata per altri fini. Vale anche per la cultura musicale. Con l’aggravante, non trascurabile, che nell’opinione pubblica italiana la musica conduce un’esistenza grama: da un lato i giornali hanno via via diminuito lo spazio ad essa dedicato, per interessarsi quasi esclusivamente del “grande evento” mediatico; dall’altro, essendo anch’essi fortemente coinvolti nello scontro politico, non sono alieni dal servirsi della cultura, musica compresa, a fini strumentali. I segnali sia dell’utilizzazione politica sia del disinteresse non mancano. Farò due esempi: uno bolognese, l’altro nazionale.
L’esempio bolognese. L’11 maggio di quest’anno è stato inaugurato a Bologna il Museo della Musica, ossia un istituto museale sorto – nel palazzo Aldini Sanguinetti legato da un privato al Comune – per valorizzare il patrimonio dei beni musicali della città, in primis la splendida biblioteca e quadreria iniziata a metà del ’700 da padre Giambattista Martini. Progettato dalla giunta Vitali negli anni ’90, poi fortemente voluto dall’Assessore alla Cultura di una giunta di centro-destra (Marina Deserti), esso è stato inaugurato un mese prima delle elezioni amministrative che hanno determinato la rivincita del centrosinistra. Orbene, se avessimo cercato sui quotidiani nazionali una presentazione e valutazione del Museo in termini culturali e scientifici, non l’avremmo trovata: nessuno di essi ha fornito dati né commenti specifici sull’utilità e l’importanza dell’iniziativa, sulla qualità dell’allestimento, sui problemi tecnici e concettuali dell’impresa, sugli orientamenti per il futuro. Grande risonanza hanno invece trovato, sui giornali bolognesi e non solo, le polemiche: fra il Conservatorio e il Comune, fra gli opposti schieramenti politici, fra questo e quel candidato, sempre comunque in chiave di conflitto tra fazioni. Il Museo in quanto ‘cultura’ è restato in ombra: è stato usato a fini elettorali. Nel leggere i nostri quotidiani, il cittadino non s’è potuto rendere davvero conto della portata politico-culturale di un’iniziativa che ha finalmente reso visibile un patrimonio inestimabile fin qui tenuto sotto chiave e fruito soltanto dagli studiosi che, conoscendone l’esistenza, accorrono numerosi a Bologna da ogni parte del mondo. Purtroppo, perfino un giornale d’élite come quello della Confindustria («Il Sole 24 Ore», 16 maggio 2004) ha optato per il volo rasoterra della polemichetta spicciola. L’episodio comprova che per i nostri giornali la cultura musicale o è spettacolo o non è. A questo stato di cose i musicologi devono cercare di porre rimedio, se vogliono divulgare, almeno tra i concittadini colti, la percezione dell’importanza del loro lavoro.
L’esempio nazionale. Il 14 luglio scorso il ministro Letizia Moratti emana un decreto che per le discipline musicali e artistiche sospende i corsi, già banditi, delle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento secondario attivate nelle Università; la formazione dei docenti di Educazione musicale viene affidata en bloc ai Conservatorii, tagliando fuori l’Università. Il decreto è dirompente: con un tratto di penna cancella l’asse della cultura musicologica costruita dalla ricerca disciplinare universitaria in anni e anni di lavoro, un asse indispensabile – crediamo – anche per formare un buon docente di scuola media. Peggio: così facendo, il decreto segrega i futuri docenti di musica dal resto del corpo docente secondario, giacché impedisce loro di fruire di un tipo di formazione cui gli insegnanti di tutte l’altre discipline accederanno; suggella l’isolamento della musica dal consorzio delle altre discipline scolastiche; riporta l’Italia indietro rispetto a quei paesi d’Europa che hanno pur saputo collaudare un ragionevole modus vivendi fra Università e Musikhochschulen. Il decreto ha sollevato l’immediata protesta e la presa di posizione degli organi accademici, la Conferenza dei Rettori in testa; esso è stato rettificato (di fatto revocato) due mesi dopo, e ancora per un anno le SSIS di Musica possono proseguire; ma il rischio che la musicologia universitaria venga esclusa in futuro dalla formazione degli insegnanti di Musica è tutt’altro che sventato. Orbene: di un orientamento che in potenza è così disgregante per la cultura musicale italiana i quotidiani semplicemente non parlano.
«Il Saggiatore musicale» non può non tener conto del vuoto d’informazione sulla musica, o dell’informazione distorta. Non perché esso possa sostituirsi al giornale: glielo vieta la sua natura di pubblicazione scientifica e di periodico semestrale. Ma perché ha il dovere di additare temi “politici” come quelli citati, temi che attengono al ruolo e alla portata della musica d’arte nel nostro Paese, per evidenziarne – a pro degli addetti ai lavori e dei musicofili – le problematiche, per consentirne l’elaborazione, e se del caso per denunziare le strumentalizzazioni. In quest’impegno politico, se non m’inganno, «Il Saggiatore musicale» non trova molti paragoni nel panorama delle riviste di musicologia straniere. Per intanto, relativamente al tema spinosissimo della formazione degli insegnanti, esce in questo stesso numero un documentatissimo intervento di Daniele Sabaino.
(3) Rafforzamento della curvatura pedagogico-didattica. – La vocazione pedagogica, ho detto, è nel corredo genetico del «Saggiatore musicale». Ma la curvatura pedagogica andrà accentuata: nei prossimi anni sarà giocoforza affrontare con più decisione le problematiche inerenti alla trasmissione del sapere musicale, essenziali per la vitalità e la crescita della disciplina. La disciplina va non soltanto costruita, ma anche divulgata. Non mi riferisco in questa sede alla divulgazione di tipo pubblicistico, cui «Il Saggiatore musicale», per sua natura, non è portato, ma della quale riconosce tutta l’importanza (ne abbiamo accennato in vari editoriali). Penso alla trasmissione del sapere che passa per la costruzione di una didattica disciplinare seria e razionale, quale vorremmo poter trovare nella scuola d’ogni ordine e grado, fino all’Università. Purtroppo la didattica disciplinare relativa al campo musicologico è debole. Tanto i musicologi italiani si sono dedicati alla ricerca erudita, alla critica, alla filologia, alla speculazione filosofica, tanto si sono tenuti lontano dalla riflessione pedagogico-didattica, ossia dalla riflessione sui contenuti da trasmettere; sul perché convenga trasmettere proprio quei contenuti; sulla loro struttura epistemologica e culturale; sulle modalità da seguire perché la trasmissione risulti efficace. Tale processo richiede che da un lato si costruiscano e ristrutturino le conoscenze grazie alla ricerca disciplinare; dall’altro, che ci sia consapevolezza delle problematiche relative all’apprendimento e all’insegnamento, e quindi apertura verso territori che non appartengono alla sola musicologia, ma che investono discipline come la psicologia, la pedagogia, l’antropologia. La prima parte del processo è ampiamente avvenuta; la seconda è stata carente. Non è un caso che negli Atti del convegno su “La storia della musica: prospettive del secolo XXI” (VIII, 2001) proprio il problema della didattica è rimasto più in ombra: eppure lo avevamo chiaramente enunciato nelle tesi del convegno. Noi pensiamo che la nostra rivista debba raccogliere la sfida della trasmissione del sapere, e pertanto ci dedicheremo con più serrata regolarità a questo tema.
Proprio per indirizzare l’attenzione in maniera forte su quest’esigenza, abbiamo deciso di dedicare, come attacco, un numero unico (il primo dell’annata XII, 2005) alla curvatura didattica dei contenuti disciplinari. Riprendendo il lavoro svolto in due corsi di ricerca-formazione su “Musica e cultura a scuola”, attuati nei mesi scorsi a Ferrara e a Mesagne, per volontà degli Uffici Scolastici Regionali dell’Emilia Romagna e della Puglia nonché degli Enti locali, una squadra di musicologi italiani offrirà una serie di saggi su opere e fenomeni significativi della musica colta ed etnica dell’Occidente e mostrerà nello specifico come si possa instaurare un rapporto efficace fra la strutturazione dei contenuti e la loro trasmissione, in percorsi didattici razionali e monitorati. Nell’annata X, 2003, intanto, a mo’ di pars destruens, abbiamo anticipato un intervento assai severo dell’etnomusicologo Nico Staiti che, in un ambito delicato e sdrucciolevole com’è il rapporto fra educazione musicale e interculturalità, mostra le grossolane aporie e le insidiose leggerezze in cui incorre certa pedagogia musicale, quando non si misura seriamente con i contenuti disciplinari – in questo caso quelli dell’Etnomusicologia – e si abbandona agli slogan in voga, disconoscendo i riferimenti pedagogico-didattici scientifici.
Per rimanere in tema, annuncio che la nostra Associazione indìce per il 12-14 maggio 2005 un convegno sull’Educazione musicale, con l’intento di definire, se non addirittura di fondare, lo statuto della disciplina. Il convegno avrà una continuazione a Venezia ai primi di dicembre del 2005, in un seminario promosso congiuntamente dal «Saggiatore musicale» e dalla Fondazione Ugo e Olga Levi.
Ho tracciato un quadro del passato e del presente, e ho avanzato qualche idea sul futuro della stella. Oggi, in occasione del primo decennale, questa stella brilla chiara e calda nel firmamento musicologico. E continuerà a brillare, se la sosterremo con la costanza nel lavoro, la gioia nella ricerca, l’impegno responsabile nella didattica. Tra dieci o vent’anni si potrà dire se essa avrà saputo mantenere la sua lucentezza. Se penso ai decennali avvenire, mi assale un pizzico di malinconia: di certo non potrò assistere al decimo decennale del «Saggiatore musicale», né temo che alcuno dei presenti lo potrà fare. Ma mi consola sperare che tale anniversario lo festeggeranno lietamente tanti altri musicologi, tanti altri intellettuali, tanti altri simpatizzanti. Le opere che costruiamo non sono solo per noi ma anche per chi viene dopo. Se l’avremo costruita bene, la stella del «Saggiatore musicale» apparterrà anche alle generazioni future, continuerà a risplendere, ed esprimerà così, in pieno, la sua intrinseca vocazione pedagogica. Auguri, allora, al «Saggiatore musicale», a tutti noi, e fin d’ora a coloro che festeggeranno il decimo decennale.
* Pubblichiamo qui il testo della prolusione svolta dal direttore della rivista in occasione del decennale del «Saggiatore musicale», in apertura dell’VIII Colloquio di musicologia (Bologna, Manifattura delle Arti, venerdì 19 novembre 2004).