Arnaldo Morelli (L’Aquila)
Il Bernardo vendicato ovvero Pasquini, misconosciuto operista del Seicento
Recenti ricerche, condotte in vista della pubblicazione di un lavoro biografico sulla figura di Bernardo Pasquini (1637–1710), hanno permesso di far luce sulla sua vasta produzione operistica; oltre ad aggiornare il catalogo delle opere, a correggere gli errori, che da tempo circolavano dalle opere di consultazione alla letteratura specialistica e viceversa, si è potuto fare maggior chiarezza sugli effettivi committenti del compositore e quindi sui meccanismi e le circostanze che ne favorirono la carriera quale operista, come pure sulla tipologia piuttosto varia delle opere pasquiniane. In questo intervento vengono sinteticamente affrontati tre aspetti: (1) la recezione di Pasquini operista e della sua produzione drammatica; (2) questioni di genere: commedie per musica e drammi per musica; (3) committenza teatrale.
(1) Recezione di Pasquini operista
La recezione di Pasquini è ancor oggi essenzialmente legata all’icona del «most important Italian composer of keyboard music between Frescobaldi and Domenico Scarlatti» (New Grove 2001), che sembra aver frequentato solo marginalmente i generi dell’opera, dell’oratorio e della cantata. La stereotipata recezione del «virtuoso keyboard player» (New Grove 2001) è confermata dalle molteplici edizioni della sua musica per tastiera e, ancor più, dalla discografia, perlopiù concentrata sulla produzione cembalo-organistica, fatta eccezione per un paio di oratori (Caino e Abele, e Sant’Agnese), poche cantate e una commediola per musica, La forza d’amore, arbitrariamente attribuitagli, ma che si è rivelata essere opera di altro compositore.
Nel corso del ventennio 1672-1692, Pasquini compose non meno di 15 opere e un atto di un’opera in collaborazione con altri; una produzione, dunque, di tutto rispetto al ritmo di quasi un’opera l’anno, considerate pure le temporanee sospensioni delle attività teatrali romane, conseguenti prima all’anno santo 1675 e poi al rigorismo di un pontefice come Innocenzo XI, che regnò dal 1676 al 1689, periodo che coincide con quello della massima attività del compositore in campo teatrale. Purtuttavia, l’appartenenza di Pasquini a una pretesa ‘scuola romana’ del tardo Seicento, estranea alla vicende del più frequentato filone dell’opera veneziana, non ha alimentato grande attenzione verso le sue opere. Ad accentuare la marginalità di Pasquini operista ha pure contribuito il fatto che la sua produzione drammatica appare, a torto, costituita in prevalenza da commedie per musica, genere che si ritiene, di solito, destinato a un consumo locale. Nondimeno possiamo dimostrare che tanto le sue commedie che i suoi drammi godettero di una discreta circolazione su scala nazionale, dato che vennero riprese a Napoli, Genova, Ferrara e in Toscana (Firenze, Livorno, Pisa, Siena), soprattutto negli anni Ottanta e Novanta del Seicento.
(2) Questioni di genere
È fuorviante ripartire la variegata produzione pasquiniana di commedie e drammi per musica sulla sola base dei soggetti. Più utile si rivela lo studio della distribuzione delle parti vocali e dei loro interventi: se nel dramma per musica troviamo sempre un quartetto di soprani o mezzosoprani (due donne e due uomini castrati), una distribuzione gerarchica delle arie e l’uso di scene comiche con funzione accessoria rispetto alla trama principale, nella commedia riscontriamo invece l’impiego costante di un quartetto  formato da due coppie di Innamorati, con due soprani e due tenori, una distribuzione più equilibrata delle arie e i personaggi buffi che interpretano scene essenziali alla trama, arrivando perfino ad assumere ruoli da protagonista, come Trespolo nella commedia omonima. 
(3) Committenza teatrale
La storiografia corrente addita tra personaggi i principali protettori e committenti di Pasquini personaggi come la regina Cristina di Svezia e il contestabile Lorenzo Onofrio Colonna, di fatto ignorando, non soltanto la documentazione esistente, ma anche i meccanismi di relazione sociale e interpersonale del tempo.
Gli studi più recenti portano a ritenere che i teatri pubblici romani dipendevano da un collective patronage: gruppi della nobiltà di più alto rango conferivano a un nobile di rango minore l’incarico di allestire uno spettacolo carnevalesco, contribuendo con quote-parte alle spese. In questo modo, anche quando i teatri pubblici erano ufficialmente vietati, l’attività teatrale poteva continuare, nascondendosi dietro la foglia di fico delle commedie rappresentate «in case de’ particolari», ovvero nelle case private o in edifici affittati a questo scopo, sotto la direzione di alcuni esponenti della nobiltà minore o di qualche artista che nutriva ambizioni di ascesa sociale per sé o per i propri familiari: fra questi Gian Lorenzo Bernini, gestore insieme ai figli di un teatro attivo nella seconda metà degli anni Settanta, monsignor Giuseppe Domenico de Totis, direttore del teatro Capranica, o il duca Pietro Caffarelli, impresario al teatro della Pace e poi in quello di palazzo Colonna, che portarono in scena molte opere di Pasquini.