Statuti documentari delle registrazioni sonore
e archeologia fonografica della voce

L’inclusione della musica registrata tra gli oggetti e le pratiche della ricerca accademica è un fenomeno che ciclicamente emerge nel corso del Novecento in relazione a differenti sguardi disciplinari e ai rispettivi interessi specifici. Per quanto riguarda i repertori euro-colti, la prospettiva più longeva e consolidata, prevalente nella musicologia anglosassone, vede le incisioni primo-novecentesche come documenti più o meno trasparenti, da sottoporre a processi di analisi vuoi quantitativa (computer based) vuoi qualitativa (embodied-based), al fine di tracciare storie delle pratiche performative. Tuttavia l’idea stessa della registrazione sonora come ‘traccia’ di un atto performativo, essenziale per validarne lo statuto documentario, entra in tensione con il cosiddetto ‘paradigma della rappresentazione’: esso individua un rapporto di denotazione iconica tra registrazione e performance dal vivo e descrive l’ascolto in termini di diegesi, ossia di narrazione unitaria anche laddove l’evento ‘raccontato’ non abbia mai avuto luogo come tale. Ma se il fonografo è un ‘narratore bugiardo’, e gli agenti preposti al processo di incisione contribuiscono alle condizioni di illusione, cosa accade se iniziamo a riconoscere che anche i performers sono disposti a mentire, ossia ad adattare il proprio fare alle esigenze della macchina? Per superare tensioni e dicotomie intrinseche al paradigma della rappresentazione, propongo di considerare performance e registrazione sonora come distinti sistemi di ‘resa in suono’ (sonification) della musica.

Basandomi su esempi di usi alternativi della musica incisa (dischi per bambini, di ginnastica ritmica e di accompagnamento pianistico), ipotizzo che la diegesi sia solo uno dei possibili ‘inviti all’uso’ (affordances) della registrazione musicale. Adotto dunque la prospettiva della mediazione radicale come strumento euristico per costruire una via ulteriore allo studio musicologico delle registrazioni, che le inquadri non tanto come documenti di una performance, quanto come agenti di continua trasformazione delle condizioni stesse della performatività musicale. Il risultato è la proposta di un’archeologia fonografica della voce, ovvero di una cartografia dei fenomeni culturali di testualizzazione, storicizzazione, feticizzazione e costruzione del sé musicale che sottendono e orientano il fare dei performers operistici (ma non solo) davanti al corno acustico o al microfono.