AL LETTORE

Questo numero doppio – l’annata di fine millennio – esce in tempo per il IV Colloquio di musicologia del Saggiatore musicale, che tratterà il tema “La storia della musica: prospettive del secolo XXI”. Ne anticipiamo qui le tesi, a pag. 396.

Chi insegna Storia della musica nell’università italiana – e per quanto ne sappiamo, la situazione non è diversa all’estero – si trova ad affrontare un problema che di anno in anno si fa più acuto: gli studenti portano in dote dalla scuola secondaria un’ignoranza crescente. Intendiamo non soltanto l’ignoranza musicale, che in Italia si spiega con l’assenza dalle superiori di qualsiasi educazione alla musica d’arte, come tecnica, ascolto e storia. Intendiamo ignoranza tout court, a largo raggio: mancanza di senso storico, scarsità di conoscenze letterarie filosofiche artistiche. L’insegnamento della Storia della musica viene così ostacolato sia sul versante della tecnica e della grammatica musicale, sia su quello degli agganci trasversali col tessuto della storia civile sociale politica economica ideale artistica. Sempre più spesso il docente universitario ha di fronte la tabula rasa, e deve fornire concetti di base che fino a qualche anno fa erano ovvi. In particolare, chi insegna Storia della musica deve insegnare da zero la metrica italiana, per spiegare un’aria di Mozart; la filosofia di Schopenhauer, per illustrare la poetica di Wagner; il teatro di Racine o Shakespeare, per discutere Rameau o Verdi; il Petrarca o il Tasso, per trattare il madrigale del Cinque e del Seicento; la politica di Carlo Magno, per narrare la storia del canto gregoriano.

Non si può dire che la scuola secondaria non offra questi contenuti. Anzi, forse ne offre troppi, ma non distingue abbastanza ciò che è essenziale da ciò che importa meno. I programmi, aggiornandosi, crescono a dismisura; l’informazione prolifera; i libri di testo traboccano di notizie letture commenti rimandi esercizi. I docenti sono spesso disorientati dalla sovrabbondanza, e fan fatica a scegliere. In molti discenti la saturazione determina abulia, l’eccesso di contenuti provoca stress e suscita rigetto. Può darsi che anche in Italia si stia insinuando surrettiziamente una forma di political correctness nei metodi e nei contenuti, che impone di allungare il menu e moltiplicare le prospettive. Di fatto, decadono progressivamente i criteri di selezione dei valori e dei livelli: in un panorama sovraffollato, tutto rischia di apparire indistinto, dunque poco attraente e poco appagante. In termini di complessità e quantità, agli adolescenti si richiede spesso uno sforzo superiore alle risorse dell’età: ciò mortifica il principio di piacere, che dell’apprendimento intellettuale costituisce una molla decisiva. In particolare, frustrare il godimento della lettura, dell’ascolto, della visione – che richiede gradualità attenzione tempo finezza, non quantità e costipazione – è esiziale per l’educazione estetica dei giovani e la formazione della loro personalità. Scrivere, leggere, far di conto non sarà stato un programma esaltante della vecchia scuola: di certo, l’estremo opposto non sta producendo risultati grandiosi. Può darsi che la refrattarietà dei nostri ragazzi all’apprendimento formalizzato dipenda da rivoluzioni di più vasta portata – il predominio dell’informatica e del video, la cultura del tempo libero e del divertimento coatto -, ma la prospettiva di veder crescere generazioni di lettori spettatori ascoltatori confusi e svogliati impone che educatori ed intellettuali riflettano severamente. Occorre soprattutto che la scuola, e di seguito l’università, ritrovino il coraggio di scegliere e selezionare i contenuti, di stabilire dei canoni, sapendo che nessun canone è mai definitivo, ma che non per questo se ne può fare a meno.

Se la Storia della musica continua a non avere spazio nella scuola secondaria, tocca all’università assicurare il grado minimo del canone. Si tratta però di ponderare per bene se davvero sia più utile persistere nella tendenza, diffusa negli anni scorsi, all’universalismo musicale ecumenico, o se non sia urgente ribadire alcuni capisaldi unanimemente condivisi. Vogliamo convenire che conoscere il Don Giovanni Il barbiere di Siviglia, la Quintadi Beethoven o la Quarta di Brahms, una cantata di Bach o un balletto di Stravinskij, un mottetto di Machaut o una bagatella di Webern, è un traguardo primario al quale difficilmente si può rinunciare, se non si vuole che vada perduta la possibilità stessa di sentirsi parte della cultura occidentale? E vogliamo riconoscere che questo principio vale sia per chi eserciterà la musica o la musicologia da professionista, specializzandosi magari in campi del tutto remoti, sia per chi mediante la musica si limiterà ad arricchire il proprio bagaglio culturale? (g.l.f.b.)