in collaborazione col 
Dipartimento delle Arti Alma Mater Studiorum — Università di Bologna  

Ventiduesimo Incontro 
dei Dottorati di Ricerca in Discipline musicali

sabato 26 maggio 2018, ore 10,30-13,15 e 14,45-17,15
Laboratori delle Arti
Bologna, piazzetta P. P. Pasolini 5b (via Azzo Gardino 65)

 

Abstracts

 

Eleonora Di Cintio (Roma “La Sapienza”)
Opera a quattro mani, ossia Il felice incontro tra Domenico Cimarosa
e Matteo Babini, autori della “Penelope” (Napoli, 1794) 

È noto che nel concepire la partitura melodrammatica l’operista del Settecento doveva tenere conto di diversi fattori contingenti, primo fra tutti la disponibilità di una determinata compagnia di canto. L’influenza degli interpreti nella genesi di un’opera in musica è stata così rilevante da indurre vari studiosi a rimarcare come «le capacità vocali e attoriali dei cantanti fossero sempre alla base delle scelte creative di librettisti e compositori» (Staffieri), e come la storia stessa del teatro d’opera settecentesco possa essere letta quale «storia di cantanti prima che di partiture» (Mattei).

Tale interpretazione, condivisibile per la maggior parte delle opere nate indicativamente fino agli anni Ottanta del secolo, si applica almeno ad alcuni dei titoli creati al crepuscolo del Settecento, frangente in cui tanto la morfologia melodrammatica quanto le professionalità dell’operista e dell’“attore” subiscono una serie di ripensamenti radicali, derivanti da stimoli diversi, tra i quali la diffusione su scala europea di certa filosofia illuministica e della letteratura drammatica inglese e francese, nonché la fama di alcuni attori sui generis del teatro di parola, attivi sui palcoscenici d’oltralpe (François-Joseph Talma su tutti). Come e quanto incidono tali cambiamenti sul modo di fare teatro in musica al tramonto dell’ancien régime e, nello specifico, sul lavoro di operisti e cantanti alle prese con la creazione di un melodramma?

Esaminando il caso della Penelope di Domenico Cimarosa (Napoli 1794), il cui primo interprete maschile fu il tenore Matteo Babini (1754-1816), vorrei cercare di investigare, in primo luogo sulla base della partitura, la complessità di quella che risulta essere stata una vera e propria collaborazione artistica: un lavoro svolto a quattro mani da due dei più raffinati artefici dell’opera italiana tardo-settecentesca, a quel tempo al culmine delle rispet- tive carriere, e latori, ciascuno a seconda dei propri mezzi, di lucide istanze espressive.