Diciottesimo Colloquio di Musicologia
del «Saggiatore musicale»

Bologna, 21-23 novembre 2014

 

Abstracts

Enrico Reggiani (Milano)
Una pace oltre il tritono: Wilfred Owen nel “War Requiem” di Benjamin Britten

 

Numerosi studiosi di indubbia autorevolezza hanno evidenziato la rilevanza dell’intervallo di tritono nel War Requiem op. 66 di Benjamin Britten, eseguito per la prima volta il 30 maggio 1962: ad esempio, Peter Evans per il suo ruolo di “principal unifying shape [which] should discourage us from attaching too limitedly programmatic or «dramatic» a significance to it” (1996²), Mervyn Cooke sul piano del “local [and] long-term tonal planning” (1996), e Arnold Whittall in quanto “perfect musical symbol for the persistent psychological and political problems of modern times” (1990²).

Tuttavia, nel War Requiem britteniano il tritono rappresenta ben di più: costituisce, infatti, ciò che il compositore inglese aveva definito nel 1942 “the purely musical idea or germ” che precede sempre “the external stimulus”. Considerato in questa prospettiva ermeneutica e a dispetto di quanto ha affermato Mervyn Cooke in una Tangeman Lecture tenuta presso l’Institute of Sacred Music della Yale University nel 2007, il tritono non è finora reperibile tra i “details of the work’s structure and musico-textual content which are well known and readily accessible in published form”. Questo paper intende, dunque, evidenziare che la pervasività della sua presenza e della sua influenza nelle inflessioni melodiche e armoniche, nelle scelte timbriche, dinamiche e agogiche e nell’organizzazione dei vari livelli strutturali (profondo, intermedio e superficiale) del War Requiem concretizza creativamente (parafrasando Roman Ingarden) una lungimirante visione tecnica, culturale e, in ultima analisi, antropologica, ispirata dall’unità sonora tra passato e presente (quasi un carattere identitario in Britten), che le potenzialità ermeneutiche della “cultural musicology” possono contribuire a far emergere.

Ad esempio, prima di giungere alla temporanea composizione melodica del do “comunitario” che, nella prima sezione (Requiem Aeternam), chiude il Dona eis e precede i Quick crotchets del Te decet hymnus (Allegro) eseguito dal coro di fanciulli, proprio sulla divaricazione tritonica do-fa# cresce un tappeto armonico realizzato dall’intero organico della grande orchestra: è, questa, l’iniziale e programmatica rappresentazione dell’antidoto simbolico all’apparente divaricazione ontologica tra i trascendenti “requiem aeternam”/“lux perpetua” e la contingente “pity of War” (come recita l’epigrafe da Owen impiegata da Britten nel War Requiem) che l’op. 66 pone come orizzonte umano alternativo alla dilaniante esperienza della guerra. Non casualmente tale rappresentazione elabora la contemporanea presenza di tre componenti compositive complementari ed interpretabili come icone sonore di tre modelli del mondo, diversamente connotate dal punto di vista storico-culturale, cioè il totale cromatico la-la non impiegato integralmente, un “pedale armonico” di la minore tonicizzato, e l’inflessione modale lidia, emblematicamente ed icasticamente “liofilizzata” proprio nelle “spoglie”, programmaticamente intercambiabili, del tritono: do-fa# (letterale) o solb-do (enarmonica).

È in tale complementarità che trova alimento il linguaggio possente e “pacificatore” che il grande compositore inglese ha insegnato ad articolare al dilaniato “secolo breve”: nel War Requiem, proprio questa complementarità alimenta uno strategico legame antropologico, simbolico e culturale tra “the Owen poems in the vernacular, and the words of the Requiem Mass familiar to everyone”, la cui solidità smentisce l’ipotesi di una prevalente e dissacrante autoreferenzialità dei testi in lingua inglese, incautamente definiti “an integrated Owen song-cycle” da Philip Reed. In onore della ricostruita “living Cathedral” (anglicana) di Coventry, che custodisce il dono di un’ecumenica Chapel of Unity, Britten concepì una cattedrale musico-letteraria che intreccia il tempo lungo e comunitario del testo latino con una tragica esperienza individuale, recisa inesorabilmente nel fiore della giovinezza dalla crudeltà della guerra: quella, appunto, del giovane poeta inglese Wilfred Owen, cresciuto nell’intensa confessione evangelica della madre, in seguito abbandonata perché carente di “imagination, physical sensation, Aesthetic philosophy”.

Nel War Requiem, Britten non lancia proclami o manifesti pacifisti, non spreca facili ironie dissacratorie sui misteri del sacro, non indossa divise, t-shirt o paramenti ecclesiastici: intreccia musicalmente passato e presente dell’Umano in modo che il primo continui a celebrare il segreto della vita ed il secondo impari l’oweniana “pity of war, the pity war distilled”, invocata dal baritono nella cornice del Libera me, Domine, de morte aeterna. Non si tratta di una soluzione di comodo: è un’intuizione creativa, un principio compositivo, una prospettiva simbolica, che si fa pensiero musicale e materiale sonoro.

Lo diviene a tal punto e con tale chiarezza che, quando il canale radiofonico della BBC trasmise dal vivo la premiere il 30 maggio 1962, la celebre scultrice inglese Barbara Hepworth (1903-1975) prese carta e penna e ne scrisse al compositore: “I was profoundly moved this evening listening to the War Requiem. I felt it to be a truly magnificent work, and of tremendous importance to all of us both intellectually and emotionally. The visionary quality of the balance between the finest of what is past and the understanding of the new orientation towards the future, seemed to me sublime”. A stretto giro di posta, il 4 giugno dello stesso anno, le giunse la riconoscente conferma di Britten: “I have been treasuring the idea of this work for ages, & endeavoring to find the language to express it; just this balance between the old & the new. But I am surprised that you think it only possible in music at this moment – I feel most of the musical world is hopelessly bogged down in just exploring new techniques, with a very few exceptions”. Il suo War Requiem aveva colto nel segno e lo fa sempre anche in questo nostro presente, incurante delle distanze della Storia e delle Culture: anzi, proprio per la sua capacità miracolosa di ritrovare una “antediluvian sense of unity of musical and poetical vision” (Peter Porter, 1984) nell’esperienza e nella rappresentazione di tali distanze.