Pubblichiamo qui la relazione di base appositamente stilata per una giornata di studio (I beni musicali: una definizione, Bologna, palazzo Aldini Sanguinetti, 26 maggio 2004) che, a pochi giorni dall’emanazione del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio (2 maggio 2004), è stata celebrata per iniziativa del Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna, dell’Associazione fra Docenti Universitari Italiani di Musica, del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna, e dell’Associazione «Il Saggiatore musicale». L’iniziativa ha ripreso i temi sollevati nell’analogo incontro (La musica come bene culturale) indetto sei anni fa dal «Saggiatore musicale» e dal Centro La Soffitta del Dipartimento di Musica e Spettacolo, in collaborazione con la Facoltà di Conservazione dei Beni culturali dell’Università di Bologna (Ravenna, palazzo Corradini, 30 marzo 1998; «Il Saggiatore musicale», IV, 1997, pp. 499-509).

Di seguito alla relazione di Annalisa Gualdani riproduciamo gli interventi dell’amministrativista Marco Cammelli e di due musicologi variamente impegnati sul campo dei beni musicali, Giancarlo Rostirolla e Florence Gétreau. Nella giornata bolognese del 26 maggio Lorenzo Bianconi (Bologna) ha introdotto e diretto i lavori, Angelo Pompilio (Bologna-Ravenna) ha trattato il rapporto tra i beni musicali e le nuove tecnologie, Giorgio Busetto (Venezia) ha illustrato l’esperienza della Fondazione Ugo e Olga Levi sul campo dei beni musicali. È stata inoltre presentata al pubblico una sintesi del saggio del senatore Giuseppe Chiarante (Roma), I Beni culturali musicali nella legislazione di tutela e nell’organizzazione del Ministero, già apparsa nel volume degli «Annali dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli» dedicato a Il patrimonio culturale musicale e la politica dei beni culturali (n. 14, 2003, pp. 7-12).

Il tema dei beni musicali stenta ad affiorare nella ricerca giuridica sulla legislazione relativa ai beni culturali. Non ne fa menzione neppure il contributo compendioso più aggiornato (Il codice dei beni culturali e del paesaggio, commento a cura di M. Cammelli, coordinamento di C. Barbati e G. Sciullo, Bologna, Il Mulino, 2004).


Annalisa Gualdani
Siena

Il bene musicale: una categoria ancora in cerca di definizione

1. L’indispensabilità di un’autonoma nozione di bene musicale

L’argomento del presente lavoro deve necessariamente muovere da un’affermazione lapidaria, o forse è meglio dire da una constatazione: nel nostro ordinamento non è dato rinvenire un’autonoma nozione di ‘bene musicale’.

Infatti, nonostante la breccia aperta con l’art. 2, comma 2, lett. d) del d.lgs. n. 490/1999, che ha annoverato espressamente gli spartiti musicali rari e di pregio artistico o storico all’interno della fattispecie ‘beni librari’, e nonostante le sollecitazioni pervenute da più parti al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, emanato con d.lgs. 42/2004 (d’ora in poi: nuovo Codice), non ha ritenuto di dover sintetizzare in una categoria autonoma le cose appartenenti al “patrimonio della musica”. Così, l’art. 2, comma 2 del nuovo Codice, là dove afferma che «sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà», non inserisce nell’elenco qualificante le singole cose l’aggettivo ‘musicale’, ma, confermando l’impostazione del Testo Unico dei Beni culturali (d’ora in poi: T.U.), che considera gli spartiti musicali come species del genus ‘beni librari’, riconduce i primi tra le cose d’interesse bibliografico. Ergo, anche la nuova disciplina sui beni culturali continua a confermare l’equazione ‘spartiti = beni musicali’. In realtà, l’indispensabilità di un’autonoma e più ampia nozione di ‘beni musicali’, che trascenda la limitatezza contenutistica conferitagli dal T.U., e di una loro specifica disciplina, distinta dalla normativa generale sui beni culturali, da tempo viene reclamata da musicologi ed esperti del settore, attesa l’ampia congerie e le peculiarità delle res da ricondurre in tale àmbito.

Se da un lato va accolta con entusiasmo la scelta del T.U. di sottoporre a tutela gli spartiti musicali rari e di pregio artistico storico, dall’altro non v’è chi non veda come sia palesemente riduttivo identificare i beni musicali tout court con gli spartiti musicali, dovendosi ritenere che facciano parte del patrimonio della musica gli strumenti, gli accessori di questi ultimi (si pensi ad archetti, ance, bocchini) e l’altra oggettistica “pertinente” all’attività esecutiva (leggii, metronomi, sgabelli dei pianoforti), ove ricorrano, ovviamente, i requisiti della rarità e del pregio artistico o storico.

A tale mia affermazione si potrebbe obiettare che, in realtà, i beni relativi al patrimonio musicale non sono sprovvisti di protezione, giacché possono rinvenire una loro tutela attingendo alle norme relative ora ai beni librari e archivistici, ora ai beni artistici, storici, monumentali, o per l’arte musicale alla disciplina dei beni culturali intesi come attività. Tuttavia, come è stato rilevato tra gli altri da Lorenzo Bianconi, una buona tutela, gestione, valorizzazione dei beni materiali relativi alla musica ha bisogno di conoscenze e competenze specifiche ed invoca una visione unitaria che la compartimentazione in diversi tipi di beni e discipline impedisce.1 Ad oggi, infatti, la tutela prevista per i beni culturali in genere si palesa inadeguata per i beni musicali, attesa l’importanza assunta, anche a livello europeo, dalla storia della musica italiana. Si manifesta pertanto la necessità di porre attenzione sulla disciplina e sulla formazione di conoscenze specialistiche, in particolare in tema di catalogazione e di restauro. Quest’ultimo, ad esempio, se indirizzato agli strumenti musicali, si distingue per spiccate qualità rispetto al restauro dei beni culturali genericamente intesi, poiché non sempre e in ogni caso si tratta di mero restauro conservativo e statico, bensì, piuttosto, di restauro dinamico, in quanto — almeno in certi casi — funzionalizzato all’esecuzione.

In tempi relativamente recenti lo scarso interesse dedicato ai beni musicali in campo legislativo e la frammentarietà degli interventi pubblici finora attuati nei confronti di questo importante settore dei beni culturali ha spinto l’Istituto Storico Austriaco di Roma, in collaborazione con la Società Italiana di Musicologia, a rivolgere un appello scritto al Ministro per i Beni e le Attività culturali, affinché, in attesa di un auspicato intervento legislativo ad hoc, consideri l’opportunità d’istituire una Direzione generale per i Beni musicali o un Istituto speciale per i Beni musicali con compiti di studio, ricerca, sperimentazione e documentazione e per la promozione di un piano organico d’interventi relativi al recupero, alla tutela, alla conservazione, al restauro, alla catalogazione, alla valorizzazione e alla fruizione delle diverse tipologie di beni musicali presenti in Italia, intendendo tra questi — sia nel pubblico sia nel privato — gli archivi musicali, le biblioteche musicali, le raccolte di manoscritti e stampe musicali, gli archivi sonori e audiovisivi, le collezioni e i musei di strumenti musicali, gli organi storici, le testimonianze iconografico-musicali.

Un’altra questione sta emergendo: se gli edifici dedicati alla musica, quali gli auditorium, i teatri lirici, le sale d’ascolto eccetera, possano ricondursi nella costituenda categoria dei beni musicali, e ciò in forza delle loro specifiche caratteristiche acustiche. Al riguardo è opportuno evidenziare che i medesimi, essendo beni immobili (se pur d’interesse musicale), per essere sottoposti alla disciplina dei beni culturali devono, ovviamente, possedere i requisiti espressamente richiesti dall’art. 10, comma 1 del nuovo Codice, e cioè l’«interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico». In realtà, molti sono i contenitori fisico-architettonici del bene musicale che, pur essendo importanti luoghi di divulgazione e veicoli per la formazione musicale della persona, restano privi di adeguata tutela per la mancanza dei suddetti requisiti. Tale lacuna poteva essere colmata se fosse stata ampliata nel nuovo Codice la portata dell’art. 2, comma 1, lett. b) del T.U. («sono beni culturali le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante»), aggiungendo espressamente alla citata fattispecie il riferimento alla storia della musica: ma in realtà il legislatore del 2004 ha taciuto sul punto.

Nella formulazione di una futura nozione di ‘beni musicali’ si potrebbe operare una classificazione in seno ad essa distinguendo i beni culturali musicali mobili ed immobili suscettibili di protezione non solo per la loro rilevanza storico-artistica eccetera, ma altresì per il loro interesse musicale particolarmente importante, e per aver rivestito un ruolo nella storia della musica del Paese.

2. L’affiorare della musica come oggetto d’interesse per il legislatore

Le motivazioni dell’assenza nel nostro ordinamento giuridico di una nozione di ‘bene musicale’ sono state evidenziate in uno studio di Agostino Ziino,2 il quale, dopo aver sottolineato la mancanza di una certa qual sensibilità “musicale” nel legislatore italiano, ha individuato le ragioni di tale lacuna in aspetti attinenti l’organizzazione amministrativa del nostro Paese. In passato, infatti, le attività musicali, escluse quelle didattiche rientranti nella Pubblica Istruzione, erano appannaggio esclusivo del Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Dopo la soppressione di quest’ultimo fu creato un Dipartimento per lo Spettacolo nel Ministero per i Beni culturali avente compiti concernenti la musica lirica, concertistica, quindi il ‘bene culturale attività’, non però il ‘bene musicale materiale’. La conseguenza di ciò è stata la totale assenza di strutture istituzionali preposte alla tutela e gestione della musica in quanto bene storico culturale, ad eccezione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica, dal quale dipendono le biblioteche musicali annesse ai Conservatorii, considerate peraltro biblioteche scolastiche, e della Direzione generale dei Beni librari, degli Archivi e dei Beni artistici.

Si manifesta ora la necessità di tracciare a grandi linee l’evoluzione dell’interesse del legislatore italiano per il settore di cui si discute. Occorre, però, preliminarmente individuare le due direttrici attraverso le quali si snoda detto interesse: in primo luogo, la musica intesa come ‘bene culturale attività’, e le implicazioni che essa comporta; in seconda istanza, l’emergere — entro la categoria ‘bene librario’ — della figura degli spartiti musicali.

Prima del d.lgs. n. 112/1998 e del T.U., né la legge n. 1089/1939 né la Commissione Franceschini avevano mai ricondotto ex se la musica nell’alveo dei beni culturali, né nella sua configurazione, potremmo dire, materialista, né nella sua concezione più evoluta (emersa soltanto col d.lgs. n. 112/1998) di ‘bene culturale attività’.

Una svolta notevole, in tal senso, fu apportata con l’art. 1 del disegno di legge A.S. 2619,3 presentato il 4 luglio 1997 dall’allora Ministro per i Beni culturali (Walter Veltroni), il quale, nell’affermare che «la musica, quale mezzo di espressione artistica e di promozione culturale, costituisce, in tutti i suoi generi e manifestazioni, aspetto fondamentale della cultura nazionale ed è bene culturale di insostituibile valore sociale e formativo della persona umana», preconizzava, per la prima volta in un testo di legge, l’applicazione del concetto di ‘bene culturale’ alla musica. Nel progetto la musica venne concepita come un bene culturale indispensabile per la formazione della persona, la cui fruizione non doveva perciò essere privilegio di pochi ma, piuttosto, parte integrante del diritto all’istruzione che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini. Affermava l’art. 1 del d.d.l. 2619 che la musica in quanto «bene materiale a fruizione collettiva» appartiene al patrimonio della Nazione, e che pertanto andava tutelata e promossa da parte delle istituzioni pubbliche, le quali devono attivarsi per attuare il principio costituzionale che garantisce la musica quale forma d’arte.

L’art. 2 del disegno di legge Veltroni («lo Stato, le regioni e gli enti locali riconoscono le attività musicali; … ne promuovono lo sviluppo; … favoriscono la formazione professionale …; … assicurano la conservazione del patrimonio storico della musica; …») accennava poi alla necessità di proteggere il patrimonio musicale, non entrando tuttavia nel merito e non definendo il contenuto da assegnare al concetto di ‘patrimonio storico della musica’.4

Il corpo del progetto non favorì, infatti, una definizione di ‘patrimonio storico della musica’, suscitando una serie d’interrogativi che indussero a chiedersi se oggetto di tutela fossero i beni materiali — gli spartiti, gli strumenti, i dischi, eccetera — oppure il patrimonio intellettuale (p. es. l’edizione critica di una partitura) oppure ancora il patrimonio estetico (p. es. il melodramma all’atto della sua effettiva esecuzione e rappresentazione). È da escludere che la protezione si rivolgesse al bene materiale, poiché il legislatore ometteva qualsivoglia riferimento alle biblioteche, agli archivi musicali, alle discoteche storiche, agli strumenti musicali, riducendo dunque al minimo l’oggetto della protezione stessa, avendo peraltro il progetto di legge riguardo specifico alla musica come ‘bene culturale attività’ piuttosto che alla tutela dei supporti che la contengono.

Col T.U. sui beni culturali ed ambientali, che per la prima volta prevede e tutela gli spartiti musicali (pur come sottocategoria dei beni librari), si compie un passo ulteriore verso la consapevolezza dell’opportunità di affrancare il bene musicale dalla nozione generica di ‘bene culturale’, perché dotato di connotazioni e caratteristiche che non consentono di considerarlo sic et simpliciter un mero componente di quell’ampia e generica categoria che è il bene culturale.

3. Gli spartiti musicali come nuova tipologia di beni culturali

Come già ricordato, una delle novità più rilevanti introdotte dal T.U. è rappresentata dall’inserimento, tra i beni librari, della sottocategoria degli spartiti musicali. La sensibilità dei redattori del T.U. per il materiale d’uso degli esecutori va senz’altro ricondotta alla presa di coscienza dell’importanza della musica nella formazione culturale dei singoli,5 oltreché della funzione sociale da essa svolta6 e dal conseguente interessamento che il legislatore, a partire dal 1997, ha dimostrato nel settore.

Nel parere reso il 26 maggio 1999 dalla VII Commissione della Camera dei Deputati sullo schema di decreto legislativo riguardante il T.U. delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali, si evidenziava la necessità di prendere in considerazione (al pari dei beni librari), ai fini della tutela, gli spartiti musicali nella loro totalità ed organicità, prescindendo dal subordinare la tutela stessa alla sussistenza di ulteriori requisiti, quali la rarità ed il pregio storico-artistico. Il parere della Commissione sosteneva, inoltre, che i beni librari e gli spartiti musicali dovessero essere inclusi nel novero dei beni da tutelare in quanto tali, e in particolare (come previsto dall’art. 822 c.c.) le raccolte delle biblioteche che, spesso, contengono anche gli spartiti musicali, da considerarsi questi ultimi come beni demaniali da tutelare da parte dello Stato, delle Province e dei Comuni. Trascurare i beni librari nella loro organicità significava infatti non tenere conto dei materiali in deposito legale ed eludere il problema dei diversi generi di supporto su cui vengono registrati note, testi ed immagini.

Il nuovo Codice all’art. 10, comma 4, lett. d) innova rispetto all’art. 2, comma 2, lett. d) del T.U., il quale, nell’affermare che «sono beni culturali disciplinati a norma del titolo I … gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico», subordinava la qualificazione di questi ultimi come beni culturali e la relativa tutela alla sussistenza dei requisiti della rarità e del pregio qualificati dagli aggettivi ‘artistico’ o ‘storico’. Il legislatore del 2004, nell’includere nella definizione di ‘bene culturale’ «gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio», ha epurato dagli epiteti ‘artistico’ e ‘storico’ la rarità ed il pregio che devono connotare il bene musicale, eliminando i dubbi e le incertezze — ne tratteremo più avanti — suscitati intorno ai medesimi dalla lettera della disposizione del T.U.

A proposito della rarità e del pregio, dobbiamo ricordare che l’editoria musicale nasce perlopiù come materiale d’uso, cioè finalizzato all’impiego degli spartiti e delle partiture da parte dei musicisti ai fini dell’esecuzione, non come materiale da biblioteca, destinato per vocazione alla conservazione. Gli stessi supporti contenenti le composizioni musicali sono perciò caratterizzati dalla deteriorabilità di materiali, dal fatto che non sono “confezionati” in modo durevole, stante proprio la loro funzionalizzazione all’uso. Al riguardo si manifesta pertanto l’opportunità di rispondere a un interrogativo: quando uno spartito musicale può considerarsi raro o di pregio, e quindi da sottoporre a tutela? In primis dobbiamo ricordare che esiste, per la musica, un repertorio internazionale, il cosiddetto RISM (Répertoire International des Sources Musicales), che registra gli esemplari noti di spartiti e partiture — risalenti ai secoli anteriori al XIX — posseduti da biblioteche e archivi di tutto il mondo, e che la loro classificazione come ‘fonti’ musicali conferisce al materiale musicale, quasi per antonomasia, il carattere della rarità.

Ma perché il requisito della rarità è così rilevante per lo spartito? Per il materiale musicale la rarità è importante in primo luogo perché, in quanto materiale d’uso, non è suscettibile di prolungata conservazione, ed è pertanto destinato a scomparire; in secondo luogo perché la musica è un linguaggio in continua evoluzione, e dunque il documento musicale cristallizza, insieme alla creatività del compositore, anche le rispettive tecniche compositive, i tratti stilistici, i modelli formali: fotografa, insomma, un pezzo di storia della musica.

In Italia, rispetto ad altri Paesi, si osserva talvolta la tendenza, tra gli addetti ai lavori, ad ampliare eccessivamente l’area degli spartiti oggetto di tutela, dichiarando ad libitum di particolare rarità e pregio storico un vasto numero di beni musicali. E ciò può essere considerato in senso sia positivo sia negativo: spesse volte, infatti, l’eccessiva protezione e tutela rischia di portare al risultato opposto e di vanificare il risultato.

Tornando al dettato di cui all’art. 10, comma 4, lett. d) del nuovo Codice dei beni culturali, il legislatore, anziché limitarsi a ripetere la formula dell’art. 2, comma 2, lett. d) del T.U., pur eliminando il riferimento all’artisticità e storicità dello spartito musicale, avrebbe dovuto meglio specificare l’accezione da conferire ai termini ‘rarità’ e ‘pregio’, per consentire una miglior individuazione degli spartiti musicali da sottoporre a tutela. D’altro canto la genericità dell’enunciazione normativa demanda in toto tale individuazione alla discrezionalità dei tecnici deputati alla dichiarazione: e se è vero che melius abundare quam deficere in caso di ampliamento dei beni da ricondurre a tutela, quid nel caso si adottino criteri eccessivamente restrittivi?

Al di là dei rilievi critici sopra svolti, ai redattori del T.U. va comunque riconosciuto il merito di aver avuto una felice intuizione nel prevedere autonomamente gli spartiti musicali, come categoria ex se, anche se la loro ubicazione accanto alle carte geografiche induce a chiedersi quale fondamento abbia tale accostamento ed inoltre se, separando a livello sistematico gli spartiti musicali dai beni librari, il d.lgs. n. 490/1999 abbia implicitamente voluto assegnare al materiale musicale un’attenzione particolare, mai riservata prima.

In conclusione, il T.U. prima ed oggi il nuovo Codice dovranno rappresentare un impulso per il legislatore affinché venga creata una disciplina ad hoc per gli spartiti musicali e per le altre componenti che possono venir annoverate nella categoria dei beni musicali, estesa magari alle funzioni delle Biblioteche dei Conservatorii depositarie di materiali storici, in modo che si tuteli, si gestisca e si valorizzi organicamente e definitivamente il materiale musicale.

4. I requisiti della rarità e del pregio artistico e storico

Il tema della artisticità e storicità degli spartiti musicali è questione ormai superata, atteso che, come si è sottolineato, il nuovo Codice per i beni culturali ha espunto i due requisiti dal dettato normativo. Tuttavia mi sembra interessante sottolineare i dubbi e le problematiche che la precedente formulazione sollevava nell’interprete.

Il T.U. sottoponeva all’àmbito d’applicazione della propria fattispecie gli spartiti musicali in possesso del carattere della rarità e del pregio artistico o storico. Per gli spartiti musicali, come per gli altri beni librari, tuttavia, non sembrava richiesta la contestuale compresenza dei due requisiti, essendo stato, infatti, impiegato il medesimo costrutto sintattico grammaticale, inserendo la congiunzione e. Un profilo di novità si rilevava, invece, nell’aver specificato la natura del pregio; così l’art. 2, comma 2, lett. d) del T.U. precisava che su una medesima cosa possono ben coesistere sia il pregio artistico sia quello storico.

Premesso che non è dato conoscere il grado di consapevolezza con la quale il legislatore aveva apposto i suddetti epiteti accanto al pregio, la presente analisi presuppone la non casualità di dette attribuzioni e si limita a formulare delle mere ipotesi suscettibili di essere confutate.

La prospettiva muta a seconda che dei beni di cui alla lett. d) si evidenzi il solo valore documentale (del supporto) o anche il loro essere testimonianza avente valore di civiltà; è allora possibile formulare più interpretazioni:

  • nella lett. d) il pregio artistico o storico va inteso nell’accezione di ‘valore artistico storico’, valore riferito non tanto al supporto di per sé, quanto piuttosto all’artisticità o storicità insite in ciò che il supporto esprime, dunque in quanto artisticità o storicità del valore civilizzante;
  • avendo riguardo propriamente al supporto, posto che sia gli spartiti musicali sia le carte geografiche sono materiale d’uso, è evidente che essi — quantomeno nel caso delle musiche e delle carte a stampa — esistono in una molteplicità di esemplari; sicché, mentre è semplice individuare un oggetto raro degno di essere tutelato, definire quando esso sia pregevole risulta estremamente difficoltoso; pertanto, aggettivare tale requisito con i caratteri dell’artisticità e storicità consente una delimitazione dei beni da proteggere;
  • non potendo distinguere, come per i beni della prima parte della lett. c) (documenti notevoli, incunaboli) tra beni unici per antonomasia (manoscritti, autografi, carteggi, documenti notevoli) oppure «antichi» (gli incunaboli), e gli altri che devono possedere carattere di rarità e di pregio sic et simpliciter (libri, stampe, incisioni), i redattori del T.U. hanno dovuto aggiungere un quid pluris alla rarità e al pregio, quasi che il riferimento alla storicità volesse sussumere la celata antichità presente nella prima parte dell’art. 2, comma 2, lett. c).

Autorevole dottrina ha affermato che il termine ‘interesse’ coinciderebbe col termine ‘valore’: pertanto l’aggettivo ‘artistico’ si connoterebbe per «la sua funzione genericamente specificante tra il complesso di quelle cose che possono dirsi risultato di una attività creativa qualificata da una tecnica particolare (arte)».7

Per tale orientamento, nell’espressione «interesse artistico», di cui alla legge n. 1089/1939, filtrata ora nel T.U., sarebbe estranea una valutazione di ordine puramente estetico, poiché essa implicherebbe, invece, un giudizio sul valore della cosa non già estetico ma storico, e di diversa gradazione (eccezionale, notevole, ecc.), che l’opera rivesta nello svolgimento della storia, della scienza e della storia dell’arte. «Non che un giudizio di valore estetico non sussista, ma esso entra solo come componente di un complesso giuridico storico-scientifico, in quanto solo attraverso una valutazione del genere il bene potrà considerarsi rispondere o meno alla funzione strumentale delle cose menzionate dalla legge».8

Di diverso avviso altra parte della dottrina, la quale rileva che, se pur l’opera d’arte contenga sempre un momento documentale (riproduttivo) dell’ambiente del tempo in cui essa è sorta, la sua connotazione determinante s’individua tuttavia in un giudizio di valore estetico che, concettualmente, la discrimina dalle categorie dello storico.9

Esaminando le qualificazioni del pregio, si evidenzia che quello artistico si connota per essere intrinseco e diretto, mentre quello storico si connota per il suo carattere estrinseco ed indiretto, avendo riguardo al riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere. Il pregio artistico è suscettibile d’identificazione in base a dati di ordine obiettivo, che prescindono dall’identità dell’autore; e va altresì ricordato come l’assolutezza di esso, pur ammettendo una notevole articolazione di intensità, non possa ridursi a valori puramente documentari.10

La giurisprudenza formatasi intorno al pregio, di cui alla legge n. 1089/1939, aveva affermato che, nel caso del vincolo su un bene di pregio artistico, oggetto di tutela è il valore intrinseco della cosa determinato dal collegamento con fatti e vicende della storia o dell’arte.11 Rispetto alla legge n. 1089/1939, il T.U. ha ampliato i confini dell’interesse storico, riconducendo così nell’elencazione nuove tipologie di beni.

Dopo questa digressione, per tornare alla disciplina dei beni di cui all’art. 2, comma 2, lett. d) del T.U., va rilevato che l’epiteto ‘artistico’, posto accanto al termine ‘pregio’, causava confusione e commistione tra pregio del bene musicale in quanto bene culturale materiale e pregio del bene musicale attività; ritengo infatti che il pregio artistico intrinseco si celi tra i righi del pentagramma, sia cioè insito nel dettato stesso del discorso musicale, il quale, proprio perché suscettibile di essere riprodotto dagli esecutori e fruito dagli ascoltatori, assurge a linguaggio portatore d’un significato che trascende l’immanenza nella res materialmente intesa. Il pregio artistico, infatti, non si ferma al momento storico in cui viene “fotografato” o stampato nel materiale cartaceo: esso appartiene certamente all’opera dell’autore, ma si rarefà e universalizza con l’esecuzione. Pertanto, il pregio artistico andrebbe riferito, più che all’oggetto ‘spartito’, all’esecuzione musicale che riproduce l’arte del compositore; e quindi al ‘bene culturale attività’ più che al ‘bene materiale’, poiché il pregio artistico appartiene al mondo dell’astrazione e della percezione e non al dato sensibile.

Più agevole , invece, si presentava l’individuazione del pregio storico, perché più attinente allo spartito come documento che testimonia un periodo storico, un’epoca che inserisce l’autore in un contesto musicale determinato (si pensi ad esempio alle pergamene contenenti la notazione neumatica medioevale tramandataci dal lavoro dei monaci amanuensi).

5. La disciplina del nuovo Codice e gli spartiti musicali

Il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio segna un’evoluzione importante per quanto riguarda la tutela degli spartiti musicali. Mentre, infatti, nella previgente disciplina gli spartiti musicali sottostavano alle regole che presiedevano le raccolte di cui facevano parte ed i luoghi in cui erano custoditi, il nuovo Codice afferma, in due distinti articoli, due importanti precisazioni: la prima, contenuta nell’art. 5, comma 2, dove si afferma che «le funzioni di tutela … che abbiano ad oggetto manoscritti — e molti sono i testi musicali manoscritti —, autografi, carteggi, documenti, incunaboli, raccolte librarie non appartenenti allo Stato o non sottoposte alla tutela statale … sono esercitate dalle regioni»; l’altra contenuta nel comma 3, dove si afferma che, sulla base di specifici accordi o intese e previo parere della Conferenza Stato – Regioni – Province autonome, «le regioni possono esercitare le funzioni di tutela anche su raccolte librarie private, nonché su carte geografiche, spartiti musicali, fotografie, pellicole o altro materiale audiovisivo … non appartenenti allo Stato».

Ciò sta a significare che il legislatore, perseguendo la linea del decentramento e della sussidiarietà, ha ritenuto necessario conferire una funzione — la tutela — che da sempre veniva considerata di prerogativa statale alle comunità regionali, perché sarebbero, per vicinanza e sensibilità, più in grado di controllare e preservare l’integrità degli spartiti musicali.

6. Considerazioni conclusive

Le considerazioni sin qui svolte conducono tutte a sottolineare la necessità di una definizione di ‘bene musicale’. Tuttavia la suddetta elaborazione dovrà essere preceduta da un chiarimento dell’accezione da conferire alla nozione di ‘fondo musicale’.12 Generalmente si è soliti considerare il concetto di ‘fondo musicale’ in una accezione minima, cioè come la somma di un numero più o meno rilevante di pezzi di musica, spartiti, partiture. Spesso in aggiunta è sottintesa anche una connotazione storica o il legame ad un’istituzione o al lascito di un musicista. Non v’è tuttavia chi non veda come tale accezione sia alquanto riduttiva, dovendo ricondursi nella medesima — per dire — anche i libretti d’opera, le collezioni di LP di jazz, le raccolte di manoscritti liturgici corredati da notazioni, materiali sonori ed informatici di varia natura, raccolte di CD eccetera. Il concetto di ‘fondo musicale’ diviene, quindi, una categoria suscettibile di estensione non solo per la vastità degli oggetti in essa riconducibili, ma altresì per l’ampliamento dell’area degli utenti. Parallelamente all’espansione della nozione di ‘fondo’ si dovrà costruire una nozione lata ed elastica di ‘bene musicale’ capace di raccogliere in sé una pluralità di beni materiali e no.

La necessità di coniare una nozione ampia ed autonoma di ‘bene musicale’ va crescendo anche con l’avvento delle nuove tecnologie, che sempre più coinvolgono il campo della musica. Molte sono infatti le forme musicali che ricorrono all’uso dei moderni strumenti messi a disposizione dall’informatica e dall’elettronica: musica elettronica, musica concreta, musica elettroacustica, musica sperimentale, musica acusmatica, musica informatica eccetera. Questi nuovi generi, insieme agli strumenti necessari per la loro produzione e riproduzione, vanno a costituire un’ulteriore species — quella dei beni musicali elettronici — e vengono dunque ad ampliare il genus dei beni musicali.

In base alle considerazioni sopra esposte emerge come una disciplina specifica, distinta da quella generale sui beni culturali, che tuteli tale materia, sia oggi, come mai prima d’ora, indispensabile, attese le numerose problematiche relative alla conservazione che interessano i supporti di queste nuove forme musicali ed attesa la necessità di competenze specifiche nei soggetti che presiedono alla conservazione, valorizzazione e gestione del patrimonio musicale.

Inoltre, la conservazione di tali nuovi materiali pone problematiche diverse rispetto a quelle imposte dalle opere musicali del passato, poiché il supporto di memorizzazione è solo in parte cartaceo, essendo nella maggioranza dei casi magnetico e pertanto molto labile. Non solo: la preferenza per i supporti elettronici sta portando alla produzione di materiali cartacei di qualità scadente, che probabilmente non consentirà di preservare per i posteri le opere musicali ivi impresse. Tale stato dell’arte deve pertanto sollecitare la coscienza del legislatore e delle istituzioni, stimolandoli a dar vita alla creazione di una legge sistematica che distintamente e coordinatamente tuteli i beni e le attività musicali, preservando l’ingente patrimonio musicale passato ed attuale in possesso del Paese del bel canto.

Marco Cammelli
Bologna

Il regime dei beni musicali nel nuovo Codice: brevi note

Qualche accenno in termini di diritto positivo, dopo l’illustrazione della dottoressa Gualdani. Mi pare vada registrata positivamente una leggera progressione in materia, dovuta anche alla differente ampiezza tra le due deleghe che hanno portato al T.U. del 1999 e al nuovo Codice del 2004.

Nel primo, si passa dalla mancata previsione alla tutela degli spartiti, sia pure collegati ai beni librari. Nel nuovo Codice (art. 10, comma 4, lettera d) può registrarsi una maggiore autonomia dovuta non solo alla struttura dell’art. 10, ma anche alla scelta unificante d’inserire il tutto in principii unitari (art. 2), fondendo in un’unica disciplina tipologia e individuazione dei beni, da un lato, oggetto di tutela e forme e limiti della medesima, dall’altro. Il fatto dunque che anche gli spartiti siano sottoposti alle norme generali della tutela (per quelle specifiche, vedi l’art. 11) è un elemento positivo, la cui portata concreta sarà certo valutabile nel medio periodo, soprattutto per l’uso che ne faranno l’amministrazione e ancor di più il giudice.

In negativo, invece, dobbiamo registrare il fatto che, sebbene la musica sia parte del patrimonio culturale e ne costituisca anzi un elemento di particolare rilievo, molte sono le ‘cose’ che restano fuori (strumenti, accessorii), e in ogni caso non c’è una concezione autonoma e complessiva di ‘bene musicale’.

Le ragioni sono molte, e sono approfondite nel merito dagli altri interventi di questa tavola rotonda. Ma ce n’è anche un’altra: nella musica la parte più importante sfugge alla “materialità” tuttora richiesta anche dal nuovo Codice per la configurazione stessa della nozione di ‘bene culturale’. Si tratta di un problema squisitamente giuridico, dovuto al riflesso su questo terreno dei principii di tipicità, pluralità e materialità del bene culturale generati dall’esigenza di garantire la tutela di altri beni (come la proprietà privata) o altri principii (come la tassatività della tutela penale o del regime fiscale), il cui àmbito non ammette forme indeterminate di definizione quali, appunto, l’immaterialità. Proprio su questi elementi, giova ricordarlo, la Corte Costituzionale ha di recente dichiarato l’illegittimità dell’art. 52, comma 1 del T.U. del 1999, ritenendo che il vincolo sugli ‘studi di artista’ ivi disposto (col divieto di provvedimenti di rilascio) finisse per risolversi in effetti espropriativi senza indennizzo (sentenza 185/2003).

C’è da aggiungere, comunque, che, se tutto ciò vale per i ‘beni’, non vale necessariamente per gli ‘istituti’ culturali (art. 101 del nuovo Codice), come archivi, biblioteche, musei, nei quali l’aggettivo ‘musicale’ non aggiungerebbe molto, mentre la tipicità, mancando le implicazioni d’altro genere di cui si è appena detto, non è richiesta. Il che, si direbbe, apre uno spazio per il sistema locale che altrimenti mancherebbe. Quanto alla tutela di edifici significativi per la musica, cui accenna la relazione della dottoressa Gualdani, non mi pare si possa escludere che almeno in linea di principio tale obiettivo possa essere egualmente raggiunto tramite la disciplina generale delle cose immobili d’interesse artistico e storico, di proprietà pubblica, o particolarmente importante, se di proprietà privata, di cui ai commi 1 e 3 dell’art. 10.

Sono infine decentrate o decentrabili alle Regioni, sul piano esclusivamente amministrativo, la tutela per i beni pubblici non appartenenti allo Stato (art. 5, comma 2) e, mediante accordi o intese Stato-Regione, quella sui beni e le raccolte private (art. 5, comma 3).

Fin qui il diritto positivo.

In prospettiva, si può concordare sull’esigenza di un’apposita disciplina, ribadendo che se un bene musicale non si esaurisce interamente nell’oggetto materiale attraverso cui si esprime (strumento o altro), si pone un delicato problema di immaterialità (esecuzione, eccetera), per il quale è necessaria non solo la veste legislativa (statale, direi, benché la cosa offra qualche margine di dubbio), ma soprattutto una definizione sufficientemente precisa, tale da guidare l’attività amministrativa che ne consegue.

L’altra via, da valutare con attenzione specie nell’attesa di quanto maturerà sul fronte della disciplina speciale, è di evitare la soluzione dell’ampliamento dei beni culturali (intesi in senso tecnico, con l’inserimento appunto dei ‘beni musicali’) e di optare per una linea d’azione indiretta, più defilata sul piano concettuale ma con ricadute sostanziali tutt’altro che disprezzabili: questa linea consiste nell’assicurare un particolare sostegno materiale e finanziario a beni o attività anche immateriali, da considerare comunque ulteriore e aggiuntivo rispetto alla vigente disciplina di tutela che, come tale, non verrebbe messa in discussione. È una strada percorribile anche a livello decentrato, ed è in ogni caso il ragionamento che ha permesso alla Corte Costituzionale di salvare la legge della Regione Lazio che sotto il titolo enfatico (e un po’ imprudente) di «tutela e valorizzazione dei locali storici» disponeva provvidenze per gli esercizi commerciali e artigianali d’epoca (sentenza 94/2003).

Nel concludere, due questioni. Al fondo, naturalmente, resta il problema dell’intervento legislativo statale e del connesso dilemma già emerso da tempo (si veda il disegno di legge Veltroni del 1997): o si affronta di petto, e si supera per tutti, la questione della immaterialità, o si pratica la via della categoria speciale. Con l’ulteriore interrogativo però, specie dopo il nuovo Codice del 2004, di quanto quest’ultima soluzione porti in concreto ad un regime di garanzie più favorevole di quello dettato in via generale, e quanto invece la categoria speciale non rischi di rivelarsi, nel lungo periodo, uno svantaggio e dunque, proprio perché tale, di ridurle.

Quale che sia la risposta in ogni caso — ed è il secondo punto — si apre da subito la possibilità di una fase significativa di interventi, legislativi e amministrativi, da parte di Regioni ed Enti locali. Avanzare proposte e suggerire interventi a questi livelli potrebbe consentire sperimentazioni utili da molti punti di vista, anche per il tema appena richiamato.

Giancarlo Rostirolla
Chieti

Il patrimonio bibliografico musicale nella politica culturale del nostro paese

L’intervento ha rilevato dapprima l’insufficiente definizione riservata ai beni bibliografico-musicali italiani nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137; d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42; Parte I, art. 5, comma 3: «… le regioni possono esercitare le funzioni di tutela anche su raccolte librarie private, nonché su carte geografiche, spartiti musicali, fotografie, pellicole o altro materiale audiovisivo … non appartenenti allo Stato»; Parte II, art. 10, comma 2 c): sono beni culturali «le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, egli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico»), dove detti beni vengono riduttivamente riassunti negli «spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio» e curiosamente assimilati alle «carte geografiche» (art. 10, comma 4 d). Ha rilevato altresì non solo la totale divaricazione esistente tra il legislatore e la realtà culturale italiana, confermata dal dettato della citata legge, ma anche l’incuria e l’indifferenza dei responsabili parlamentari e ministeriali nel non voler pur minimamente considerare né i risultati di una sommatoria di esperienze dirette sul campo, né i suggerimenti normativi emersi nella giornata di studio di Ravenna su La musica come bene culturale (30 marzo 1998), in particolare nella relazione di base di Lorenzo Bianconi (cfr. qui nota 1).

Sono poi state passate in rassegna le principali tappe segnate dalla musicologia italiana nel settore specifico del censimento, della catalogazione, della tutela e valorizzazione del patrimonio bibliografico-musicale italiano. Le iniziative dell’Associazione dei Musicologi italiani (1908-1915) e, nel secondo dopoguerra, l’attività svolta da Claudio Sartori (Ufficio Ricerca Fondi Musicali) e, quindi, le varie operazioni congiunte della Società Italiana di Musicologia e del RISM, seguite a ruota dal contributo offerto da molti istituti di ricerca e catalogazione delle fonti musicali, sorti in parecchie regioni d’Italia, hanno portato alla luce una realtà bibliografico-musicale che contraddice vistosamente il limitante riferimento del legislatore.

Negli oltre mille istituti di conservazione, tra biblioteche e archivi ecclesiastici (di abbazie, arcivescovili, capitolari di basiliche, cattedrali, chiese collegiate, di cappelle musicali, di conventi, curie, diocesi, monasteri, di musei di cattedrali, diocesani e di arte sacra, di ordini religiosi, di parrocchie, di seminari vescovili, arcivescovili e interdiocesani, dei cosiddetti “tesori” di cattedrali, duomi o basiliche, di università cattoliche, vescovili e arcivescovili, eccetera) e a istituti appartenenti a un’altrettanto variegata realtà statale, regionale e privata (accademie, archiginnasi, archivi notarili e di stato, associazioni culturali, musicali, di ricerca e di studio, di bande musicali, di biblioteche statali, regionali, provinciali e comunali; di collegi nazionali e ordini cavallereschi e nobiliari, di comuni — biblioteche e archivi storici —, di conservatorii di musica, di consorzi, di dimore storiche, di enti lirici e sinfonici, di enti radiofonici, di istituti-scuole musicali comunali, di musei comunali e statali, di privati, di teatri privati, comunali e statali, di università italiane, eccetera), sono infatti conservati i materiali che rappresentano le fonti storico-musicali del passato e del presente: musica pratica e teorica a stampa e manoscritta (partiture, spartiti e altro), trattati di teoria manoscritti o a stampa, libretti di feste, favole pastorali, oratorii e melodrammi, carteggi di musicisti, documenti d’archivio di cappelle musicali, bandi e notificazioni di interesse musicale, periodici, libri di storia, estetica, filosofia e matematica di ogni secolo, fotografie e documenti iconografici (incisioni, stampe, disegni), senza contare i codici liturgici e i frammenti con notazioni neumatiche, esemplati dal secolo IX-X fino ai nostri giorni.

È un patrimonio enorme per quantità e interesse, emerso anche in virtù di un recente censimento portato a termine dall’Istituto di Bibliografia Musicale di Roma negli ultimi due lustri (in corso di pubblicazione), che ha consentito di verificare la presenza di documentazione libraria, codicologica e archivistica in circa 1700 istituti di conservazione italiani (oltre mille in più di quelli censiti da Rita Benton nel 1972 per la serie C del RISM). Nel nuovo repertorio, che s’intitolerà CABIMUS (Clavis Archivorum ac Bibliothecarum ad Musicam Artem Pertinentium, ovvero Guida ai beni bibliografico-musicali italiani), oltre a tutti i dati necessari al reperimento e all’accesso di ogni singolo fondo musicale, verrà dato conto anche analiticamente dei contenuti, divisi per categorie, generi, peraltro quantificati, insieme agli autori rappresentati in ciascun fondo a stampa o manoscritto. Si tratta di alcune centinaia di migliaia di unità bibliografico-musicali, raggiungibili attraverso un indice onomastico. Particolare attenzione è stata riservata in detto repertorio ai codici liturgici e ai relativi frammenti (ca. 6000 tra antifonari, graduali, innari, sequenziari, kyriali eccetera), sparsi un po’ dappertutto, soprattutto negli archivi notarili e di stato e in quelli di istituti religiosi, percorrendo anche un iter geografico e una mappa di luoghi di conservazione suggerita da Giacomo Baroffio.

Il citato censimento ha tenuto ovviamente conto di tutte le analoghe operazioni effettuate in precedenza, comprese quelle degli istituti di ricerca regionale, senza trascurare la mole dei dati emersi nell’àmbito dei progetti sui Giacimenti culturali, avviati nel 1987 e conclusi sul finire del secolo, il primo grande intervento portato a termine dal Ministero per i Beni e le Attività culturali – Direzione generale per i Beni librari, gli Istituti culturali e l’Editoria: la quale impresa ha consentito peraltro la creazione della rete SBL-Musica (attualmente in corso di riversamento in SBN), evento di cui non esiste l’analogo a livello internazionale e che in ogni caso testimonia un’importante presa di coscienza dello Stato italiano nei confronti del patrimonio bibliografico-musicale. Un bene culturale che il legislatore non potrà né dovrà più considerare in modo tanto superficiale, generico e anacronistico.

Infine, si è accennato alle enormi carenze esistenti a livello biblioteconomico in gran parte dei luoghi di conservazione. Un paese che si rispetti non può trascurare in modo simile gli assetti bibliotecari delle grandi e piccole biblioteche e dei conservatorii che custodiscono beni musicali; in ciascuno di essi sarebbero necessari bibliotecari, conservatori ed operatori specializzati. Le carenze legislative come quella segnalata influiscono per li rami in maniera nefasta sulla gestione e conservazione d’uno dei più importanti patrimoni storico-artistici — il più ragguardevole al mondo per numero e importanza —, rendendo vani gli importanti sforzi fatti in questi ultimi trent’anni dall’Università italiana per la formazione di figure professionali idonee alla conservazione, tutela e valorizzazione delle testimonianze musicali del passato e del presente.

Florence Gétreau
Paris

Définir, réunir, conserver, étudier, restituer le patrimoine musical. Quelques exemples en France

Entre culture matérielle et immatérielle, la musique constitue un bien culturel d’une richesse et d’une complexité peu communes. Dans la perspective patrimoniale qui est celle de ces rencontres, j’aimerais apporter le témoignage d’une professionnelle de musée mise en contact, au cours de sa carrière, avec des institutions aux missions variées mais complémentaires:

  • un musée d’instruments de musique à vocation nationale et internationale;
  • un musée national d’ethnologie à vocation maintenant européenne;
  • un institut de recherche sur la musique en France associant le Centre national de la Recherche scientifique, le Ministère de la Culture et la Bibliothèque nationale de France.

Ma communication s’attachera par conséquent à préciser la nature des collections concernées, les principes qui ont présidé à leur enrichissement au cours des générations, les méthodes et résultats de leur étude scientifique, les actions culturelles qui les entourent. Le statut passé, présent ou à venir de chacune de ces structures, directement ou indirectement responsables de biens culturels musicaux, sera exposé, de même que le cadre réglementaire propre à la France pour protéger et valoriser ce patrimoine. Les évolutions récentes (mise en conformité de la réglementation sur la protection du patrimoine avec la législation européenne; décentralisation; réforme des Musées de France) seront prises en compte.

1. Au cours de ma carrière, j’ai été impliquée dans la programmation du Musée de la musique à Paris. Entre 1977 et 1997, il a fallu vingt années pour programmer et réaliser cette institution patrimoniale, issue du Musée instrumental du Conservatoire national supérieur de musique de Paris. Cette collection initiale avait été fondée à l’époque révolutionnaire et vit le jour en 1864. Formée d’instruments de musique principalement européens de l’époque moderne (aujourd’hui plus de 5000 instruments de musique, mais aussi plusieurs centaines de documents iconographiques originaux avec notamment le dépôt des œuvres picturales autrefois au Conservatoire), son statut de département d’une école d’enseignement supérieur de la musique la cantonna longtemps dans un rôle de prestige tandis qu’elle ne répondait que très partiellement aux exigences de conservation moderne, au niveau international de la recherche, aux attentes du public. L’ouverture du Musée de la musique en 1997 a été l’occasion de détacher cette collection de son institution mère pour l’intégrer à la nouvelle structure culturelle de la Cité de la musique. Le décret portant création de cet Etablissement public à caractère industriel et commercial met l’accent sur un certain nombre de caractéristiques: revenons donc au texte définissant cet établissement.

La Cité de la musique … a pour mission d’entreprendre des activités consacrées au développement de la vie musicale. Elle contribue à l’information et à la formation musicales du public ainsi qu’à la recherche dans le domaine de la musique. Elle développe les échanges entre étudiants, professionnels et grand public, facilite l’insertion des jeunes musiciens dans la vie professionnelle, contribue aux échanges musicaux internationaux … La Cité de la musique comprend un musée de la musique qui a pour mission de contribuer à la connaissance de la musique et à la conservation du patrimoine instrumental. Il conserve, acquiert et présente au public des collections instrumentales et iconographiques. Il présente des expositions permanentes et temporaires illustrant l’histoire de la composition, de l’interprétation et de la diffusion de la musique. Il exerce un rôle de conseil et d’animation du réseau des collections publiques dans le domaine de la musique. Il peut mettre des instruments à la disposition de musiciens, notamment, pour l’application de la convention avec le Conservatoire de Paris. Il dispose d’un laboratoire de recherche et de restauration d’instruments, gère un centre de documentation, organise des manifestations publiques et participe aux activités de la Cité de la musique.13
Après plus de sept ans d’activité, le bilan est parfaitement atteint.
On notera que «l’établissement public reçoit la garde de collections appartenant à l’État et au Conservatoire national supérieur de musique et de danse de Paris. La propriété des collections du Conservatoire est transférée à l’État. L’établissement acquiert et conserve pour le compte de l’État les œuvres achetées sur les crédits dont il dispose».

L’originalité de ce musée à vocation nationale est d’être placé, à l’intérieur du Ministère de la Culture, non pas au sein de la Direction des Musées de France, comme les 36 musées nationaux que sont le Louvre, le Musée de Versailles, le Musée d’Orsay, les Musées Guimet, le Musée national des Arts et Traditions populaires etc., mais sous la tutelle de la Direction de la Musique, de la Danse, du Théâtre et des Spectacles. On voit bien donc que la vocation culturelle de l’institution est fortement conservée. Pour autant ce nouveau statut de 1995 précise que les acquisitions sont décidées «par le directeur général de la Cité de la musique, sur proposition du directeur du Musée et après avis du conseil artistique des musées nationaux et du comité consultatif des musées nationaux». En effet, «la direction des musées de France contrôle la bonne gestion des collections dans le cadre d’une convention et vérifie la tenue des inventaires et le respect des règles applicables à la gestion des collections publiques».

Une sorte de double tutelle s’exerce donc sur ce Musée: la Direction de la Musique apporte les financements, veille à la dimension de diffusion musicale du Musée; la Direction des Musées de France vérifie l’application des normes de conservation, et la politique des publics du Musée; elle contrôle la validité des processus scientifiques d’acquisition. Enfin, le conseil scientifique du Musée prévu à l’article 18 du décret de fondation est consulté par le directeur sur les orientations de la politique scientifique et culturelle du Musée. Il est composé bien sûr d’un représentant des deux tutelles (Inspection des Musées de France; Inspection de la Création et des Enseignements artistiques musicaux), un représentant du Conservatoire de musique de Paris, deux représentants des facteurs d’instruments, trois musiciens interprètes, quatre personnalités ayant des compétences scientifiques, musicologiques ou patrimoniales. Pour avoir participé depuis 2001 à ce comité scientifique, je peux témoigner que bien que n’ayant qu’un rôle consultatif, il est un lieu de débat intense sur les orientations et les réalisations du Musée: les points de vue parfois divergents de ses représentants issus de branches variées du monde musical et du patrimoine en font la richesse et reflète aussi la diversité des publics.

Pour contribuer à protéger le patrimoine musical, et principalement les biens instrumentaux (mais aussi l’iconographie musicale originale, le patrimoine technique lié à la facture instrumentale), le Musée peut bénéficier des dispositions se rapportant aux trésors nationaux:14 les trésors nationaux sont des biens culturels qui, présentant un intérêt majeur pour le patrimoine national au point de vue de l’histoire, de l’art ou de l’archéologie, ont fait l’objet d’un refus temporaire de sortie du territoire concrétisé par un «refus de certificat» d’exportation. Rappelons que les instruments de musique de plus de 100 ans d’âge et d’un montant d’exportation supérieur à 50 000 euros doivent faire l’objet d’un certificat d’exportation. De même les manuscrits et partitions musicales peuvent être ainsi contrôlés à l’exportation. Dans les 30 mois qui suivent une éventuelle interdiction de sortie, l’administration, donc le Musée de la musique, comme d’ailleurs la Bibliothèque nationale pour les manuscrits et partitions musicales, peut faire une offre d’achat au propriétaire, la détermination du prix d’achat étant confiée à des experts en cas de refus de ce dernier. Le Musée de la musique a ainsi interdit de sortie du territoire, puis acquis pour ses collections plusieurs grands clavecins prestigieux depuis dix ans: notamment un clavecin de Louis Denis (Paris, 1677), acquis en 1994, et un clavecin de Couchet (Anvers) en 2003. En cas de non entente sur le montant de la négociation, le refus de certificat peut être dorénavant renouvelé indéfiniment. Remarquons aussi que la nouvelle loi relative aux Musées de France applicable depuis janvier 200215 a institué deux dispositifs destinés à encourager les entreprises à maintenir en France les trésors nationaux:

  • le premier ouvre droit à une réduction d’impôt sur les sociétés égale à 90% des versements effectués par une entreprise pour l’acquisition par l’État ou toute personne publique d’un trésor national destiné à une collection publique;
  • le second instaure une réduction d’impôt égale à 40% des dépenses d’acquisition consacrées par une entreprise à l’acquisition pour son propre compte d’un trésor national; dans ce cas, l’œuvre, classée monument historique, doit être présentée au public dans un Musée de France pendant dix ans et ne peut être revendue pendant cette période.

Cette nouvelle loi relative aux Musées de France a apporté plusieurs autres modifications importantes à la gestion des Musées et donc à celle des instruments de musique et collections du Musée de la musique:

  • son premier objectif est la décentralisation;
  • elle supprime le contrôle obligatoire de l’État, celui-ci n’assurant plus que des missions d’expertise et de conseil;
  • elle permet le transfert de propriété des dépôts de l’État en région aux collectivités territoriales;
  • elle affirme ensuite la mission prioritaire d’accueil des publics: chaque musée ayant reçu le label ‘Musée de France’ devra disposer d’un service ayant en charge les actions d’accueil des publics, de diffusion, d’animation et de médiation culturelle; ces actions seront assurées par des personnels qualifiés;
  • elle précise que l’«État encourage et favorise la constitution de réseaux géographiques, scientifiques ou culturels entre les Musées de France auxquels peuvent participer des établissements publics de recherche et d’enseignement supérieur»;
  • elle supprime le conseil artistique des Musées nationaux et celui des Musées de province dans leur ancienne forme, instances votant sur l’opportunité des acquisition des musées nationaux mais aussi du Musée de la musique; elle le remplace par des commissions scientifiques thématiques (pour les Musées nationaux; par exemple l’une pour les Musées-châteaux, une autre pour les Musées d’ethnologie), régionales ou inter-régionales: le Musée de la musique va bientôt disposer de la sienne, à nouveau représentative, comme son conseil scientifique, des différents milieux liés à la musique; un conseil artistique des Musées nationaux est institué pour les acquisitions très onéreuses au-delà du seuil fixé;16
  • enfin cette loi permet maintenant d’inaliéner des biens appartenant aux collections publiques, ce qui n’avait jamais été le cas auparavant; des procédures de déclassement seront dorénavant possibles: on voit que libéralisme et décentralisation sont les maîtres mots de cette nouvelle loi.

Les biens instrumentaux sont par ailleurs protégés au sein de la Direction du patrimoine (l’une des directions du Ministère de la Culture) par la loi sur les monuments historiques.17 Un objet classé ‘monument historique’ est interdit de sortie du territoire. Il bénéfice en contrepartie de l’aide de l’État pour sa restauration. Le décret du 28 janvier 1994 relatif à la Commission supérieure des monuments historiques,18 qui délibère sur l’opportunité de classer des monuments, institue une cinquième section ayant compétence sur les orgues, buffets d’orgues et instruments de musique. Aux côtés de facteurs d’orgues, d’organistes, d’acousticiens, siège parmi les membres de droit le directeur du Musée de la musique ès qualité. Depuis sa création, cette cinquième section a classé plus de 1000 orgues. Ce qui signifie que ces orgues ne peuvent être restaurés qu’après consultation d’entreprises agréées, délibération en commission sur les offres, l’État participant la plupart du temps à environ 50% du montant des frais de restauration. Plus d’une centaine d’orgues sont par ailleurs inscrits sur une liste d’attente. Cette même section a classé plus de 5000 cloches et plus de 150 instruments de musique dont on peut préciser la nature: sur quelque 84 instruments à clavier, on dénombre 12 harmoniums, trois orgues portatifs, régales ou positifs; 21 orgues à cylindres; six clavecins,19 huit épinettes, 20 six clavicordes, 28 pianoforte. Du côté des 69 autres instruments on dénombre 26 harpes, trois tympanons, quatre pochettes, onze cordes frottées diverses, huit cordes pincées, neuf percussions, six instruments à vent et deux pots acoustiques.

Même si seulement 1000 orgues sont classés ‘monuments historiques’, on remarquera qu’avec le soutien de la Direction du Patrimoine et l’aide éditoriale de la Direction de la Musique et de la Danse, quelque 8000 orgues ont pu être recensés par le bureau des orgues au Ministère de la Culture, décrits, et enfin publiés en volumes régionaux.

2. Je voudrais me tourner maintenant vers un Musée national d’ethnologie à vocation bientôt européenne: le Musée national des Arts et Traditions populaires à Paris. Création du Front populaire en 1936, cette section française du Musée de l’Homme est associé depuis son origine à un laboratoire de recherche sur l’ethnologie française. La musique est présente dans cette institution au travers de collections instrumentales (environ 1500 instruments), de l’outillage se rapportant à l’artisanat de la facture instrumentale et de la gravure musicale, des partitions de chansons populaires et de music hall (plus de 20 000 petits formats); des recueils imprimés de colportage (noëls, cantiques, almanachs chantants etc.); plusieurs centaines d’estampes populaires à sujet musical et surtout 44 000 phonogrammes. Il s’agit d’enregistrements réalisés sur le terrain entre 1939 et aujourd’hui. Le Département de la Musique et de la Parole, qui a la responsabilité des collections d’instruments de musique, des fonds sonores mais aussi des fonds gérés par d’autres départements du Musée (partitions à la bibliothèque; estampes à l’iconothèque; carnets de bal ou de chanson aux archives avec les autres manuscrits), est inscrit dans un réseau de collaboration mettant au premier plan une nouvelle notion: celle de ‘patrimoine immatériel’. L’oralité est en effet au cœur des enquêtes d’ethnomusicologie. En dehors de la Bibliothèque nationale de France, au travers de son Département de l’Audiovisuel, une prise de conscience très forte s’est manifestée au moment du revival folk dans les années 1970. La préservation de ce patrimoine oral, sa diffusion et son utilisation à des fins d’apprentissage et de pédagogie est assurée par la Fédération des Associations de Musiques et Danses Traditionnelles (FAMDT). Elle regroupe depuis 1985 les associations et centres de musique et danses traditionnelles dont la mission est de procéder à la collecte, à la conservation, au traitement documentaire et à la diffusion des documents sonores sur les traditions régionales. Elle assure la promotion, la coordination et la diffusion des activités de recherche, de documentation, de formation et de création dans le domaine des musiques et danses traditionnelles. Cette association a été à l’origine de dépôts contractuels de fonds entre le MNATP et ces lieux en région. Cinq conventions de dépôt de copies de fonds ont été élaborées ces dernières années. Par ailleurs quatre centres en région sont devenus pôles associés de la Bibliothèque nationale de France récemment, ce qui montre la prise de conscience tardive mais convaincue de l’importance de ces biens culturels, et permet de ne pas oublier d’inclure les traditions orales, les traditions corporelles populaires et la transmission des répertoires non écrits dans la définition des biens musicaux patrimoniaux. Ces pôles sont:

  • Dastum, patrimoine sonore de Bretagne;
  • UPCP-Métive, pour le patrimoine sonore du Poitou-Charentes-Vendée;
  • Conservatoire occitan, Toulouse, pour le patrimoine sonore de Midi-Pyrénées;
  • MMSH (Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme et de la Société) à l’Université d’Aix-Marseille.

Par ailleurs le MNATP/CEF a bénéficié du plan national de numération des fonds sonores. Plus de 1000 heures ont ainsi pu être transférées sur support numérique. Ils sont consultables sur place (et bientôt partiellement sur l’internet entourés de méta-données sélectives) dans des conditions de confort optimal. Le développement de ce musée de la France en un Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée, et sa délocalisation à Marseille, seront l’occasion de réfléchir à un nouveau statut: sans doute un Établissement public administratif autonome en raison des financements multiples dont il bénéficie déjà (Europe, État, Région, Ville de Marseille).

Conscient des enjeux patrimoniaux que peuvent représenter la transmission orale des pratiques et des connaissances, le Ministère de la Culture, au travers de sa Direction de la Musique et de la Danse, a créé aussi en avril 2002 le Centre national de la Chanson, des Variétés et du Jazz.21 Ce centre a pour objet l’amélioration de l’environnement économique, social, technique et patrimonial du spectacle vivant dans le secteur de la chanson, des variétés et du jazz.

Par ailleurs le Hall de la chanson, au statut d’association selon la loi de 1901, s’il n’a pas vocation à conserver des collections liées à la chanson, se veut essentiellement un lieu de ressources avec sa documentation et son site internet. Sur le patrimoine immatériel, on se rapportera à la définition qu’en a donné l’UNESCO: ensemble des manifestations culturelles, traditionnelles et populaires. Elles sont transmises oralement ou à travers les gestes et sont modifiées à travers le temps par un processus de re-création collective.

3. Voici maintenant la troisième institution que je voulais évoquer, afin d’insister sur le patrimoine musical conservé dans le réseau des bibliothèques musicales en France. Il s’agit de l’Institut de Recherche sur le Patrimoine Musical en France (IRPMF). Créé en 1996 du fait du regroupement de plusieurs chercheurs musicologues venant de différentes équipes du CNRS, il dispose de trois tutelles: le Centre national de la Recherche scientifique qui finance les 2/3 des postes de chercheurs et d’ingénieurs d’étude et 50% du budget de fonctionnement; le Ministère de la Culture, qui finance plusieurs postes, attribue une partie de ses subventions et met à disposition des personnels, notamment deux ingénieurs d’étude et actuellement son directeur, auteur de ces lignes; la Bibliothèque nationale de France, qui abrite cette équipe auprès de ses collections musicales.

Cet institut comporte de nombreux thèmes de recherche: la publication monumentale des œuvres de Rameau (pour lequel une iconographie du compositeur et de ses œuvres est en cours de recensement); le catalogue des œuvres de Debussy; l’édition de ses œuvres et de sa correspondance. Plusieurs chercheurs s’intéressent à l’opéra, aux rapports franco-italiens, tandis que d’autres travaillent sur la composition des orchestres au XIXe siècle, ou à la musique sous le Régime de Vichy.

Cet institut porte aussi sur le patrimoine musical car il constitue sa première source. Il est ainsi porteur de deux inventaires. Le premier concerne l’iconographie musicale. La base de données EUTERPE, mise au point en 1999, comporte aujourd’hui quelque 10 000 notices avec quasi 12 000 photographies. Elle devrait être prochainement accessible sur l’internet. Mais le rôle le plus important joué par ce groupe pour la conservation et l’analyse scientifique des collections musicales est constitué par le support qu’il apporte au Répertoire International des Sources Musicales. Le RISM est présent dans les travaux de ce laboratoire avec le Catalogue des manuscrits musicaux antérieurs à 1800 conservés à la Bibliothèque nationale. Il comporte près de 40 000 entrées et est disponible en ligne dans la base BN Opaline. L’inventaire du patrimoine musical ragional constitue le deuxième axe inscrit dans les programmes de l’IRPMF. Il a dans ses priorités les manuscrits musicaux et les éditions musicales antérieures à 1800. Plus de 22 volumes ont déjà été publiés avec l’aide méthodologique de la Bibliothèque nationale de France et l’appui financier de la Direction de la Musique et de la Danse.

Au travers de ces multiples exemples, on voit combien le patrimoine musical français est divers; combien il faut avoir une définition extensive du bien culturel musical. Les collections matérielles ne sont pas les seules composantes. L’oralité n’est pas non plus suffisante pour une approche pluridisciplinaire des biens culturels. On voit en tout cas combien l’État français, à défaut de proposer un seul texte de loi sur la protection de ce patrimoine, a préféré des mesures nombreuses, mais finalement bien adaptées à la vocation prioritaire des grandes institutions de sauvegarde et à la vie des associations contribuant à réunir ce patrimoine et à le diffuser. L’effort de publication d’inventaires (sources musicales en région, sources manuscrites très riches à Paris, inventaire des orgues, mise sur internet des fonds sonores) a pour ambition de protéger ces collections, de les faire connaître, de s’en servir à des fins culturelles. Les efforts soutenus avec conviction par les pouvoirs publics et les acteurs culturels depuis au moins deux décennies ont permis un quadrillage exemplaire des raretés françaises en matière de ‘biens culturels musicaux’.

Références bibliographiques

  • F. Gétreau, Aux origines du Musée de la musique. Les collections instrumentales du Conservatoire de Paris. 1793-1993, Paris, Klincksieck – Réunion des Musées nationaux, 1996;
  • V. Ginouvès, Répertoire des collections d’archives sonores du patrimoine oral dans l’Europe du Sud, Aix, Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, 1997;
  • Tuan Luong, La politique en faveur du patrimoine musical, «Mesure pour Mesure…», n° 5, mars 2000;
  • F. Gétreau et M. Colardelle, Les musiques traditionnelles au Musée national des Arts et Traditions populaires et au futur Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée, «Cahiers de Musiques traditionnelles», 16, 2003 (Musiques à voir), pp. 43-58;
  • voir aussi «Culture et Recherche», Ministère de la Culture et de la Communication – Mission de la recherche et de la technologie, n° 30, décembre 1992 (Le laboratoire d’organologie et d’iconographie musicale de la Cité de la musique; La section musicale du Musée Guimet); n° 47, mai 1994 (Le centre d’information et de documentation “Recherche musicale”); n° 50, décembre 1994 (L’atelier d’études sur la musique française des XVIIe et XVIIIe siècles); n° 64, janvier-février 1998 (dossier La recherche musicale); n° 91-92, juillet-octobre 2002 (Musique et son: les enjeux de l’ère numérique); n° 97-98, juillet-octobre 2003 (dossier La musicologie).

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1) Cfr. L. Bianconi, La musica come bene culturale, «Il Saggiatore musicale», IV, 1997, pp. 499-506 (anche in «Economia della Cultura», VIII, 1998, pp. 273-283, e in «Musica/Realtà», XIX, n. 57, novembre 1998, pp. 157-165).

2) Cfr. A. Ziino, Per i Beni musicali, «Annali dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli», n. 14, 2003, pp. 13-18.

3) Il disegno di legge n. 2619 è stato approvato in testo unificato al Senato il 20 settembre 2000.

4) Per Lorenzo Bianconi (La musica come bene culturale cit., p. 500), il patrimonio storico della musica è, dopo l’art. 2 del disegno di legge Veltroni, un desaparecido.

5) Nel pensiero di Platone, sia nel Fedro sia nel Simposio, la musica è concepita come sophia; e si potrebbe aggiungere che per il filosofo bellezza e sapienza si ricongiungono sino ad identificarsi al livello più alto proprio nella musica. Cfr. in tal senso E. Fubini, L’estetica della musica dall’antichità al Settecento, Torino, Einaudi, 1990, p. 16.

6) Damone, anticipando la catarsi aristotelica, affermava la funzione allopatica ed omeopatica della musica; essa, infatti, non solo corregge l’animo, ma ne corregge anche specificamente le cattive inclinazioni.

7) G. Piva, Cose d’arte, in Enciclopedia del Diritto, XI, Milano, Giuffrè, 1983, p. 93.

8) Ibid., p. 94.

9) Cfr. J. Kuhn, Essenza e vita dell’opera d’arte, Torino, Società Editrice Internazionale, 1970.

10) Tale argomentazione è sostenuta da T. Alibrandi e P. G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, Giuffrè, 2001, p. 180.

11) Cons. Stato, sez. VI, 26 ottobre 1971, n. 815, «Il Foro amministrativo», IV, 1971, n. 1, p. 1164; Cons. Stato, sez. VI, 13 marzo 1973, n. 199, «Il Foro amministrativo», V, 1973, n. 1, 2, p. 224.

12) Sul punto, cfr. P. Zappalà, I fondi musicali in archivi e biblioteche, «Annali dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli», n. 14, 2003, pp. 35-51.

13) Décret n° 95-1300 du 19 décembre 1995: Décret portant création de l’Établissement public de la Cité de la musique.

14) Loi n° 92-1477 du 31 décembre 1992 modifiée.

15) Loi n° 2002-5 du 4 janvier 2002 relative aux Musées de France.

16) Décret n° 2003-1302 du 26 décembre 2003.

17) Loi du 31 décembre 1913 modifiée.

18) Décret n° 94-87.

19) Donzelague, château d’Assas (procédure en cours); H. Ruckers, Musée de Colmar; H. Hemsch (1751), collection privée; J. Denis, Musée d’Issoudun; C. Labréche (1699), collection privée; clavicytherium, anonyme, collection privée.

20) Elles viennent toutes du Musée de la musique et ont été classées ‘monuments historiques’ en 1942.

21) Décret n° 2002-569 du 23 avril 2002.