Un diffuso luogo comune vuole il genio tanto più creativo quanto irrispettoso della tradizione. In realtà, la forma e i mezzi di cui il genio si serve – o quelli che viceversa rifiuta – lo costringono a rapportarsi con la tradizione, scendendo a patti ogni volta con il già noto, il già classificato. La creatività, allora, non si manifesterebbe tanto nel mistero della sua immacolata concezione (che per definizione non è materia da musicisti e musicologi, semmai da ministri del culto) quanto nella ricchezza delle forme del passato che in essa rivivono, vivificandola a loro volta, seppur in maniera complessa e spesso contraddittoria. Detto in termini più radicali, «ogni opera umana non è che la rielaborazione di materiale già esistente su questa terra» (così Busoni in un noto articolo del 1907); e tanto basterebbe, forse, a sancire il divorzio tra creatività e mito dell’invenzione.

Il valore umano, e non divino, riposto in quest’idea – la necessità d’un continuo riadattamento dell’esistente – si professa in musica come in tutte le altre opere dell’uomo; ma forse solo la musica riesce a richiamare questo valore così profondamente, ogni volta che ascoltiamo una trascrizione. Antica quanto il bisogno di far musica, la trascrizione, più di altri prodotti artistici, è un’opera ideale, in quanto esprime quel medesimo valore attraverso il suo principio formale fondante: la rielaborazione d’una composizione preesistente. Ogni trascrizione anela a uno spazio dove le tensioni e interazioni tra passato e presente vengono continuamente rivissute e rinnovate, e dove «pare che gli ambiti di due personalità siano disposti a guisa di cerchi eccentrici che si intersecano e, in parte, si coprono: settori più o meno grandi coincidono – ma l’uno di fronte all’altro stanno segmenti che si oppongono», come scrisse Schönberg a Busoni nell’agosto 1909, commentando la trascrizione che del proprio Klavierstück op. 11 n. 2 aveva fatto il maestro italo-tedesco.

Riserva del passato e fucina del nuovo, la trascrizione può essere uno strumento ideale di apprendimento e conoscenza. In qualsiasi forma si presenti – ritratta in un disegno del tutto impersonale, o espressa nel gesto più soggettivo – essa non può esistere senza l’interpretazione della musica del passato, innanzitutto per una ragione tecnica: una trascrizione prende sempre avvio dallo sviscerare un’opera preesistente, nell’obiettivo di coglierne tutto il potenziale estetico. Si tratta sempre d’un lavoro lento, meticoloso, che non può trascurare alcun particolare, nemmeno quei dettagli che di solito giudichiamo meno ‘sostanziali’. E se da un lato quest’operazione corrobora la creatività, dall’altro procura una conoscenza della musica alquanto approfondita e individualizzata. Attraverso l’interpretazione della musica del passato, la trascrizione serve dunque allo studio storico della musica, e di conseguenza consolida e riunifica competenze diversificate in un’unica e sola esperienza.

Michele Chiappini
Dottorando in Cinema, Musica, Teatro
Università degli Studi di Bologna