Dieci anni di blocco parziale del turnover: dieta dimagrante e ricostituente

Nel 2018, pare, cesserà per la docenza universitaria il blocco parziale del turnover introdotto dal Ministro delle Finanze Tremonti con il DL 112/2008, convertito dalla Legge 133/2008. Gli effetti di questo meccanismo, che ha applicato percentuali altalenanti tra il 20% e l’80% nel susseguirsi dei Governi, si possono misurare nel costante e significativo calo del corpo docente.

Dati MIUR alla mano

(http://statistica.miur.it/scripts/personalediruolo/vdocenti0.asp) dai 62.768 docenti di ruolo del 2008 si è passati ai 51.839 dell’ultimo rilevamento 2014 (-18%). La diminuzione è ancor più significativa tra i professori a contratto, quasi il 25% tra il 2009 e il 2014 (http://statistica.miur.it/scripts/PERS/vpers0.asp).

Se si osserva il fenomeno in una prospettiva strategica di medio-lungo termine, il calo descritto apre a perdite ulteriori e ancor più penalizzanti di quelle meramente occupazionali. Ad esempio, tra le varie, l’abbandono forzoso di ampi campi di ricerca – nonché l’esaurirsi dei percorsi didattici da essi nutriti – stante l’impossibilità di presidiarli. Si potrebbe paventare, se si fosse mossi esclusivamente da impulsi pessimistici, un depauperamento pressoché insanabile dello scenario accademico cui non potrebbe che far seguito un progressivo affanno nel riversare all’esterno quanto, sempre meno, internamente elaborato in termini di conoscenza e formazione.

Che l’Università pubblica possa trarre un qualche giovamento da una sorta di dieta dimagrante – siamo pur in un’epoca di razionalizzazioni e spending review della Pubblica Amministrazione – può anche avere una sua logica, sempre che la dieta sia ponderata, monitorata e assegnata da chi una dieta la sa scientemente elaborare. Il dimagrimento per mero digiuno non produce, se non raramente, gli effetti positivi desiderati. Il blocco parziale del turnover, invece, rischia di incidere in maniera acritica, poiché non governata, sui destini di discipline e percorsi formativi.

Un caso, per quanto periferico, può fornire un esempio. Quattro laureati in DAMS all’Università di Bologna, riuniti in compagnia teatrale, vincono nel 2014 un bando della Regione Puglia per indagare e valorizzare attraverso il teatro la lingua e la cultura grike del Salento. Il progetto risultato vincitore si fondava sulle metodologie di indagine apprese durante il corso di Antropologia dello spettacolo frequentato dai quattro e cessato dopo l’A.A. 2008-2009. Esso ha coinvolto come coordinatori l’allora docente e quello che era un suo collaboratore (chi scrive). E così, cinque anni dopo la scomparsa dell’insegnamento ispiratore, con l’inclusione nell’équipe di altri tre studenti dell’Università di Bologna e di una troup di videodocumentaristi salentini, la ricerca finanziata si è concretizzata nel 2015 in due sessioni di indagine sul campo, uno spettacolo teatrale, un documentario video e un volume nel quale è fissata la memoria dell’intera esperienza. Ce ne sarebbe da poter soddisfare addirittura uno degli orizzonti stabiliti da ANVUR per la valutazione della ricerca dipartimentale in seno alla cosiddetta ‘terza missione’, ossia l’attitudine a favorire la “produzione di beni pubblici di natura sociale, educativa e culturale che si sostanzia nella capacità degli Atenei e dei Dipartimenti di mettere a disposizione della società, della sue varie articolazioni, i risultati della propria ricerca e specifiche attività di servizio”(http://www.anvur.org/attachments/article/26/M~.pdf).

L’insegnamento cessato, stando all’esempio proposto, è solo il sintomo più evidente di uno sgretolarsi più profondo, un allentarsi progressivo dei tessuti connettivi che legano l’università al contesto – locale e internazionale – in cui opera e che ne istituiscono l’azione. Ogni docente non rimpiazzato, ogni insegnamento spento, non solo producono una potenziale perdita di sapere e opportunità formative, ma rischiano di recidere di netto il coacervo di relazioni che vi si innestavano: e le relazioni, si sa, crescono – e recedono – per progressione geometrica. Il danno, quindi, non può che essere esponenziale.

Dieci anni di blocco parziale del turnover non passano senza lasciare segni. L’auspicio è che l’Università Pubblica sappia innescare e governare un necessario processo di riequilibrio senza dover attendere che una qualche forma di resilienza spontanea, o indotta dall’esterno, si manifesti a surrogarne l’iniziativa: è di scelte consapevoli e di obiettivi strategici chiari e di ampio respiro di cui c’è bisogno, assieme ad una dieta ricostituente.

Matteo Casari

Ricercatore

Dipartimento delle Arti – Università di Bologna