«La musica ci è data per porre ordine nelle cose»: questa dichiarazione di Stravinskij (1934) sintetizza una delle esperienze più comuni riguardo all’ascolto della musica d’arte, ossia il piacere di contemplare un mondo sonoro ordinato, organizzato in forme belle e intelligibili. Noi spesso godiamo dell’ordine e della suprema armonia che governano tanta musica del passato: pensiamo alle perfette, quasi miracolose costruzioni musicali del Palestrina, di Bach, di Mozart (il Finale della sinfonia Jupiter rappresenta una delle più alte manifestazioni del concetto succitato).

Ma c’è il rovescio della medaglia: la musica d’arte può dar voce anche al “brutto” e al “disordine” esistenziale. Pensiamo a Schönberg, a Erwartung o al Sopravvissuto di Varsavia, o al Wozzeck di Berg, ma anche a Erlkönig di Schubert (testo di Goethe), dove l’espressione vocale arriva a sfiorare il grido: il grido di un bambino che condensa tutto il dolore dell’infanzia violata. Dunque la musica sa trasportarci nelle più alte sfere spirituali, ma è capace di scandagliare gli angoli più reconditi e bui della psiche e del mondo interiore dell’uomo. Logos e Pathos. Apollo e Dioniso. Ordine e Disordine, se vogliamo restare in una logica manichea.

E ancora: la musica dà un piacere fisico, più d’ogni altra arte. Chi può restare passivo di fronte all’enorme onda sonora di un finale sinfonico di Mahler o della Grande Porta di Kiev nei Quadri di un’esposizione di Musorgskij (orchestrati da Ravel), o dei grandiosi Finali del Guglielmo Tell e della Norma? Eppure il piacere estetico, sensuale, non può disgiungersi dal piacere intellettuale, che coglie le relazioni formali all’interno di un opus musicale, ma anche le relazioni esterne tra questo e il mondo dell’autore, il contesto culturale da cui prende forma, vita e senso. Senza dimenticare gli effetti che quell’opus è in grado di suscitare nel nostro mondo, affettivo, razionale, psichico, relazionale, oggi.

Quale insegnamento e quale giovamento trarre allora da “tutta” la musica d’arte? Dal suo ascolto come dalla sua esecuzione? Soprattutto, la varietà e la quantità di esperienze esistenziali, sonoramente organizzate, a cui essa dà accesso. Le forme e le tecniche, mutevoli, non sono che il veicolo per comunicare visioni del mondo, stati psichici o emotivi più o meno complessi e variegati; le aspirazioni più nobili ed elevate come gli incubi e le angosce più profonde. La musica d’arte ci offre alla fin fine una chiave per comprendere noi stessi, la nostra “umanità”.

Giorgio Pagannone

Ricercatore in Musicologia e Storia della Musica

Università degli Studi di Chieti-Pescara

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