“Digital strategy” o “Cultural strategy”? Per un dibattito sul futuro delle istituzioni musicali

Nel 1953 usciva il romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451, meglio noto per l’adattamento cinematografico di François Truffaut del 1966. L’autore immaginava un fantascientifico futuro della società americana in cui i libri venivano banditi e messi al fuoco: «Dobbiamo bruciarli, Montag. Tutti!».

Forse Bradbury non era andato poi così lontano con la fantasia. Certo, nessuna biblioteca è stata arsa al rogo fino ad oggi, ma di sicuro è avvenuta una forte svalutazione della ‘carta’, quando non della cultura stessa. L’avvento di internet e dell’era digitale ha avuto un impatto significativo sul tradizionale approccio alla conoscenza. Se un tempo era indispensabile recarsi fisicamente in un archivio per visualizzare un manoscritto, oggi lo si può fare comodamente da casa, rinunciando, si capisce, al fascino di maneggiare l’esemplare antico e annusarne l’odore del tempo. L’e-book è l’altra realtà del momento, che pure offre una più ampia accessibilità alla consultazione, collocandosi in una sorta di “Biblioteca di Alessandria” virtuale.

L’introduzione di mezzi di tecnologia avanzata ha sicuramente agevolato la ricerca musicologica e fornito nuovi strumenti utili per la didattica e la prassi musicale. Alla digitalizzazione di ‘materiale raro’, si aggiunge l’uso di piattaforme di comunicazione per conferenze, lezioni, esami e performance a distanza, recentemente convalidate dalle circostanze legate all’emergenza Covid-19. Perfino le biblioteche musicali e gli editori si sono dovuti adeguare al nuovo status tecnologico, aderendo alla creazione della Digital Sheet Music Library – nkoda, che mette a disposizione migliaia di titoli e offre la possibilità di intervenire sul documento elettronico con proprie annotazioni di studio.

Alla luce di tutto questo, il Royal College of Music di Londra, che della digital strategy ha fatto da tempo la sua bandiera, comincia a interrogarsi su alcuni punti fondamentali. La modernità dei tempi impone un cambio di identità delle istituzioni musicali? Che tipo di musicisti si intende formare per il futuro? Quali sono le sfide e quali i vantaggi del lavoro su base digitale? Paradossalmente, alcune delle risposte emerse dal dibattito attualmente in corso, prima ancora che riferirsi all’aspetto digitale, reclamano un’apertura in termini di offerta didattica, da alcuni considerata troppo eurocentrica e tradizionalista. C’è chi suggerisce l’introduzione del Jazz (da anni presente nei conservatori italiani) e della musica indiana, sostenendo che nessuno studente dovrebbe lasciare il college senza conoscere il Raga o saper realizzare una sequenza di accordi jazz, o ancora senza aver mai suonato pattern ritmici di tradizione africana, ma soprattutto senza conoscere queste culture ‘altre’. Allo stesso tempo si cita Steve Reich, il quale, nel corso di un’intervista, alla domanda in cui gli si chiedeva cosa un giovane compositore dovesse studiare, avrebbe risposto: armonia e contrappunto.

Sembrerebbe, dunque, che non siano le nuove strategie digitali il nodo centrale della questione, quanto piuttosto l’identità culturale di una istituzione. Forse la vera rivoluzione non consiste nel creare un futuro di fantascienza ma, molto più semplicemente, nell’aprire gli orizzonti culturali, lasciando che la modernità incontri il passato, nutrendosene come linfa vitale. Non è disfacendosi della tradizione – dal canto gregoriano ai più recenti Bussotti, Carter ecc. – che si crea il nuovo. Preservare la storia significa preservare l’identità umana, ed è questo l’unico strumento per una sana evoluzione futura.

Federica Nardacci

Assistente bibliotecaria

Royal College of Music – Londra

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