INTERVENTO – Fare teatro in carcere: valenze formative, psicosociali e artistiche

Il teatro entra in carcere alla fine degli anni Ottanta grazie al suo riconoscimento fra le attività trattamentali offerte ai detenuti in applicazione della cosiddetta Legge Gozzini (L. 663/86), che introduce una nuova concezione della pena, maggiormente aderente alla funzione rieducativa presente nel dettato costituzionale.

È dunque nel segno della formazione che il teatro fa il suo ingresso nei contesti detentivi, con professionisti esterni ammessi come “tecnici del trattamento”, i quali propongono laboratori di apprendimento non formale, basati su un approccio educativo di tipo pratico, affidato all’esperienza diretta (learning by doing).

Ma il teatro, in quanto attività creativa, e in virtù delle proprie specificità, rivela ben presto potenzialità più ampie, che attengono agli aspetti identitari e relazionali della persona detenuta. Il teatro in carcere dimostra di poter contrastare il teatro del carcere, fondato su ruoli e codici comportamentali ben definiti, e ristretto in un orizzonte spazio-temporale che non prevede la libera espressione di sé.

Lo scienziato sociale Donald Clemmer ha definito sindrome di «prisonizzazione» quell’assimilazione di abitudini, usi e costumi della vita carceraria che conduce il detenuto all’apatia e a «modificazioni personologiche» quali la perdita di identità, la demolizione della propria immagine, l’annichilimento dell’autostima. È ormai riconosciuto che il teatro rappresenta per sua natura un antidoto all’introversione e alla spersonalizzazione proprie dell’istituzione totale, giacché consente al detenuto-attore di evadere dal proprio teatro mentale (le «fantasticherie autolesionistiche» della condizione reclusa) per dare espressione, nello spazio dell’azione scenica, ai contenuti della propria immaginazione creativa elaborando una diversa rappresentazione e un diverso sentimento del proprio vissuto.

Ma valenze e ricadute dell’attività teatrale in carcere si misurano, oltre che sul piano individuale, anche sul piano dell’istituzione carceraria (per i benefici che ne traggono le relazioni fra i detenuti e il personale di sorveglianza) e su quello più ampio del tessuto sociale (grazie al ponte che il teatro è in grado di costruire fra dentro e fuori, con effetti di riduzione dello stigma e del pregiudizio da parte della società civile).

I laboratori di teatro sono proliferati dall’inizio degli anni Novanta, e oggi si calcola che siano presenti in oltre la metà degli istituti (nel 33% dei casi con durata più che decennale), conquistando importanti risultati sul piano normativo: in particolare la possibilità per gli attori-detenuti di uscire per le tournées utilizzando permessi lavorativi (e non più permessi premio) in applicazione dell’art. 21 (Legge 1975). Il dato quantitativo ha permesso di valutare l’impatto delle attività teatrali sulla recidiva, con risultati a dir poco stupefacenti: si calcola che la media italiana della recidiva (68/70%) si abbassi al 20% fra coloro che hanno avuto accesso al lavoro (intra o extramurario) e addirittura al 6% fra coloro che hanno svolto in carcere attività artistiche e culturali, e in particolare teatrali.

Dopo l’immediata e pressoché totale sospensione delle attività, in seguito al DPCM dell’8 marzo che ha introdotto le misure per il contrasto al Covid-19, la maggior parte dei registi attivi nelle carceri si è industriata per dare continuità ai rispettivi progetti, trovando una significativa collaborazione da parte dell’istituzione. Sono partite varie modalità di lavoro, anche in relazione alle diverse tipologie degli istituti: incontri in remoto, videolezioni, epistolari teatrali, prove a distanza supportate da collegamenti via tablet e persino da radio locali. Ciò dimostra l’importanza che il lavoro teatrale in carcere ha assunto non solo per gli attori detenuti, ma anche per gli artisti, come terreno di sperimentazione di nuovi linguaggi e nutrimento di senso e necessità, e per l’istituzione, consapevole del valore del progetto e delle sue ricadute.

Cristina Valenti

Professoressa associata di Discipline dello Spettacolo

Dipartimento delle Arti – Università di Bologna

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