Mithology is wrong. Così scriveva Sachs nel 1948 nel suo Our Musical Heritage negando che la musica potesse essere nata “dall’invenzione” di una mente brillante in un particolare e fortunato momento della nostra storia. Dove vanno quindi ricercate le “origini” della musica?
Questa domanda è quanto mai insidiosa e molti si sono cimentati nel rintracciare risposte, penso ad esempio alla Biomusicologia (termine coniato da Nils Wallin nel 1991), che combina biologia, neurologia e studio dello sviluppo delle capacità musicali associate alle tappe evolutive dell’uomo, un indirizzo che solo recentemente ha avuto eco anche in Italia. Lo studio delle origini non può prescindere da discipline quali l’archeologia, i cui metodi di indagine e raccolta dati sono indispensabili nei contesti didattici e sono puntati a far luce sulle epoche più antiche della storia della musica. L’archeologia musicale è un campo di ricerca interdisciplinare che ricorre ai metodi dell’Archeologia e della Musicologia ma che si inserisce nel più vasto insieme dell’archeologia della performance. L’obiettivo che una tale declinazione dell’archeologia si pone va dallo studio organologico a quello socio-culturale: colloca pertanto l’evento sonoro in uno spazio, in un luogo e in un’occasione ben determinati. Mentre una sempre crescente attenzione è stata dedicata negli ultimi anni alla storia e alla teoria della musica greca, e in parte anche romana, scarso interesse è stato rivolto alle testimonianze preistoriche e protostoriche, che vanno dal Paleolitico all’età del Ferro. Numerosi reperti, rinvenuti in diversi siti del continente europeo, sono segno tangibile e fonte primaria di conoscenza dei primordi della pratica musicale. Un esempio straordinario è il flauto di Divje Babe (rinvenuto in Slovenia e datato tra i 60.000 e i 50.000 anni fa), il più antico strumento musicale ad oggi conosciuto, oggetto di studi approfonditi da parte di archeologi, storici, fisici del suono, esperti di organologia e non da ultimo anche di musicisti. Il flauto di Divje Babe, infatti, è stato posto al centro dell’attenzione per le interessanti implicazioni “esecutive” vòlte a indagarne le inedite caratteristiche tecniche e sonore. A dimostrazione della vastità di reperti utili ad una trattazione erudita della preistoria della musica si possono citare i flauti di Isturitz e Geissenklösterle, le batterie di ossa ucraine, il bullroarer di Lalinde, il flauto da naso rappresentato sulle pareti della Grotta dei Trois Frères, la tanto dibattuta Venere di Laussel e molti altri.
Tale immenso repertorio dovrebbe essere contemplato nell’insegnamento della storia della musica e dovrebbe trovare spazio anche nella manualistica di settore la quale raramente tratta di Preistoria, e quando lo fa non dà contezza della vastità e ricchezza delle testimonianze in nostro possesso. La Preistoria della musica rivendica quindi un posto tutto proprio in ambito musicologico, che esuli dalla semplice indagine sul dato etnografico e consenta di attribuirle lo status di ricerca storica di tipo antropologico. Prendendo in prestito la mirabile definizione di Franco Alberto Gallo, significherebbe rivolgere l’attenzione ai cosiddetti “popoli senza note”, capaci di produrre “eventi sonori”, ormai scomparsi dalla realtà fisica ma documentabili nella loro esistenza e interpretabili nel loro significato.
Paola Budano
Dottoranda in Scienze per il Patrimonio e la Produzione culturale
DISUM – Università degli Studi di Catania