Si fa presto a dire “la musica è un linguaggio”…

Quante volte è capitato (ma continua a capitare) di leggere sintagmi quali “la musica è un linguaggio” oppure “la musica è un linguaggio universale/internazionale” o, ancora, la “musica intesa come forma di linguaggio”, ovvero, infine, “il linguaggio musicale” (in questi ultimi due casi secondo il dettato dell’antico programma di educazione musicale conseguente al D. M. del 9 febbraio 1979). Si tratta di sintagmi duri a morire che, di frequente anche per l’autorevolezza (talvolta distratta) di chi li impiega, sono spesso dati per scontati, riferiti a un presunto “livello neutro” e/o considerati immanenti all’esperienza e alla cultura musicalmente orientate.

In realtà, non è così e lo sappiamo da tempo. Marius Schneider e Sean Williams, ad esempio, hanno smontato l’idea della musica come linguaggio internazionale in modo altrettanto convincente di quello adottato da Richard Wetzel rispetto alla questione della sua universalità. Marcello Pagnini in Lingua e Musica: proposta per un’indagine strutturalistico-semiotica (Bologna, Il Mulino, 1974) ha, invece, scritto pagine illuminanti sulla necessità di evitare l’uso del termine “linguaggio” in ogni discussione sull’“oggetto musicale”.

Non si tratta di un pruriginoso atteggiamento censorio in materia di terminologia musicale. Al contrario: è in gioco la sua pertinenza filologica, semiotica e cultural-musicologica rispetto a ciò che si può/deve comprendere (e dire) della cultura musicale di un compositore, della sua concezione compositiva, della concretizzazione di quest’ultima in uno specifico brano, della performance di tale brano da parte di un esecutore, sia esso professionista, amateur o studente ecc. E forse non è difficile comprendere come quanto testé accennato possa avere una ricaduta formativa assai significativa in prospettiva pedagogico-didattica a qualunque livello.

Provo a illustrare il mio pensiero con un esempio. Robert Schumann (1810-1856) non accettò mai il principio logocentrico ut poesia musica praticato da molti suoi predecessori settecenteschi e non coltivò l’equazione musica = linguaggio proprio per le (ritenute da lui) convenzionali e conformistiche implicazioni verbali di quest’ultimo termine. In piena coerenza con la visione omologica della realtà tipica della cultura romantica, per il genio di Zwickau era la lingua dei fiori[1] o, come già per la visione lungimirante di Wackenroder[2], quella degli angeli[3] ad avvicinarsi alla “lingua universale” parlatadalla musica – attraverso cui “l’anima […] è stimolata in modo libero e indeterminato, ma si sente nella sua patria”[4] – senza che questo atto comunicativo possa offrire qualche spiraglio per la conoscenza della misteriosa natura dell’arte dei suoni.     

La consapevolezza di tali presupposti semiotici e cultural-musicologici, radicati nella lettura di passi schumanniani scelti in lingua originale (o in traduzioni accurate con testo a fronte) accostati con adeguata acribia filologica, è imprescindibile per una fruizione consapevole, un’analisi autorevole, un’esecuzione intelligente, una didattica responsabile, una divulgazione accurata di un qualunque “prodotto musicale”, nel cui “progetto sonoro” (Cogan & Escot) proprio quegli stessi presupposti sono transcodificati in paradigmi musicali (melodia, armonia, ritmo/metro, timbro), forme e strutture ed economie compositive. E, in quest’ottica, se il compositore considera la musica ancella del linguaggio verbale o ne conferma la misteriosa identità accostandola alla lingua degli angeli, fa una notevole differenza…

Enrico Reggiani
Professore ordinario di Letteratura inglese
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano


[1] Tagebücher. Band I, 1827-1838, a cura di G. Eismann, Veb Deutscher Verlag für Musik, Leipzig 1971, p. 400 (26 maggio 1832); “Vierter und fünfter Quartett-Morgen”, Neue Zeitschrift für Musik, neunter Band, 13 (den 14. August 1838), p. 51.
[2] Phantasien über die Kunst für Freunde der Kunst (1799), a cura di Ludwig Tieck, Berlino, Hofenberg, 2016, p. 54.
[3] Tagebücher. Band I, 1827-1838, a cura di G. Eismann, Veb Deutscher Verlag für Musik, Leipzig 1971, p. 96 (16? luglio 1828).
[4] Aus Meisters Raro’s, Florestan’s und Eusebius’ Denk- und Dicht-Büchlein (1833?), in Gesammelte Schriften über Musik und Musiker. Erster Band, Leipzig, Georg Wigand’s Verlag, 1854, p. 31.

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