Hans Heinrich Eggebrecht
(Friburgo in Brisgovia)
TRE PEZZI BREVI
Cosa si deve sapere per comprendere Bach? Nulla. Per tutta la vita, nel corso della mia attività scientifica, ho cercato incessantemente di avvicinarmi a Bach dal lato della scienza, dell’intelletto, e di farne parte ad altri, affinché anch’essi comprendessero Bach meglio di quanto non paia possibile fare senza né scienza né intelletto. Ma quanto più volevo sapere, e quanto più cercavo di trasmettere ad altri il sapere, tanto più chiaramente ho dovuto poi riconoscere che in ogni ricerca del sapere rimane un residuo a cui il sapere non può attingere. E via via che invecchiavo, il residuo si faceva sempre più grande, e vedevo in modo sempre più limpido che in esso, in questo inattingibile, sta la cosa principale, la più importante ed essenziale.
Questo residuo lo chiamerò x.
Le cose stanno così: ogni ricerca intorno a Bach, il concepire in quanto atto concettuale, il sapere prodotto dall’intelletto, tutto ciò è costantemente alla ricerca di questo x. Inoltre, l’infinitamente irraggiungibile è l’impulso che mai si inaridirà, il vortice della ricerca concettuale, anche se, o proprio perché, rimane alla fine inaccessibile all’intelletto. E d’altro canto lo x è in pari tempo ciò che, ascoltando la musica di Bach senza né ricerca concettuale né volontà di sapere, viene compreso per primo. Questo comprendere situato al di là della concettualità linguistica lo chiamo ‘comprensione estetica’. Qui ‘estetico’ non è inteso nel senso di bello o di estraneo alla realtà, ma nel senso della parola greca aístánomai presa nel suo significato di base, il percepire coi sensi. I nostri sensi colgono ciò che risuona, che nella sua modalità d’essere è situato al di là del linguaggio verbale; essi comprendono ciò che risuona nel suo esser al di là in quanto linguaggio non verbale. La comprensione estetica comprende lo x come x, cioè comprende ciò che sul piano dei concetti dell’intelletto è inattingibile. Quest’inattingibile può essere nominato: abbiamo a disposizione nomi come l’inconcepibile, l’essente e vero intemporale, l’assoluto, il trascendente, il divino, o semplicemente: Dio.
Da sempre la musica è oggetto di riflessione secondo quest’orientamento di pensiero; la si è detta di origine divina, dono di Dio, presenza di Dio, strumento della conoscenza di Dio. Ogni volta che rileggiamo quel che l’uomo ha pensato sulla musica, allorché ne ha interrogato il senso ultimo, l’enunciazione giunge al confine dove si situa il “residuo”, la cosa principale. Giunge allo x e lo nomina coi concetti dell’inconcepibile. Il Dio di Bach è il Dio cristiano. Questo lui non l’ha detto: di Dio, a parole, Bach non ha quasi mai parlato. Soli Deo gloria e regulierte Kirchenmusik zu Gottes Ehre (musica da chiesa regolata per onorare Dio) significano semplicemente: Dio. Ma la dimensione cristiana della fede di Bach è esperibile attraverso la sua musica, sia quella vocale su testo liturgico sia quella per organo legata al corale. La ricerca intorno a Bach trova nell’esegesi musicale bachiana del testo, in una ricchezza inesauribile, il Dio della rivelazione cristiana: come quando, ad esempio, nell’intonare la parola sterben (morire) tutte le voci del coro si spingono poderosamente in avanti – verso il cielo. Ma le parole “Mensch, du mußt sterben” (O uomo, tu devi morire) non sono lo x: sono una enunciazione articolata nel linguaggio dei concetti. E neppure l’esegesi musicale di queste parole, il gesto ascensionale delle voci, è lo x: è una riunione linguisticamente concepibile di testo e musica in una comprensione cristiana del morire. Lo x è l’elemento sonoro in sé e per sé, sia esso ascensionale, come in questo passo, o discendente, disperato o abbandonato o musicalmente neutro o quale che sia la sua forma fenomenica. Lo x, anche dove gli è conferito un concreto significare, è ciò che sta dietro la facciata: l’elemento concettualmente inattingibile di quanto in modo puro e semplice risuona musicalmente. Qualcosa di analogo avviene nella musica strumentale, nella musica che sta al di là del testo, ad esempio in una fuga di Bach. Noi possiamo descrivere com’essa è conformata: tema, sviluppo e divertimenti, contrappunto e armonia, elementi stilistici tipici del genere e quelli irripetibili. E tutta questa approssimazione concettuale è al servizio della comprensione mediante l’ascolto. Ma poi arriva l’ascolto; e avviene lo scossone, quello che ci fa entrare nell’Altro, nel mondo di ciò che risuona musicalmente. Quanto viene descritto analiticamente si unisce all’ineffabilità e si immerge in essa. Eppure, anche senza sapere cosa siano dux e comes, contrappunto e armonia, elementi ricorrenti e unici, noi percepiamo e comprendiamo ugualmente ciò che non sarà mai attingibile dalle parole nella sua complessità sensibile, che in ogni suo momento è al di là del linguaggio e fondamentalmente sta sopra ogni linguaggio. Siamo andati a finire nel mondo dello x.
Un accesso a Bach lo offrono anche la biografia, la storia, le tradizioni di cui Bach si appropriò e che rinnovò nel corso della sua vita, e che trovano un sedimento nella sua opera. Tutto questo è in grado di spiegare molte cose: ad esempio la varietà della sua produzione, radicata nella varietà degli incarichi professionali di Bach e progressivamente svincolata da questa situazione; il legame con la tradizione dell’artigianato musicale nel contrappunto, nel basso continuo e nella polifonia; quel collocarsi, individuabile nelle sue composizioni, tra luteranesimo, pietismo e illuminismo; la partecipazione al mondo ecclesiastico, a quello legato alle corporazioni e al mondo borghese, che andava nella direzione dell’autonomia musicale, cioè di un pensiero musicale libero sul piano estetico. Tanto si è studiato, pensato e scritto su questi approcci, che la massa della produzione critica è ormai incalcolabile; eppure le fonti pervenuteci vengono ogni giorno interpretate di bel nuovo. Ma anche questi tentativi interminabili di spiegare Bach a partire dalla storia cozzano tutti contro un limite, un confine invalicabile. Collocandoci al di qua di questo confine si può dire come la musica di Bach sia fatta in connessione con la sua situazione biografica e storica, nei due sensi di ‘storia generale’ e di ‘storia della composizione’; al di là del confine resta però inspiegabile il fatto generale che essa poté essere creata in quanto mondo sonoro – quella domanda che rimanda alla capacità creativa, alla genialità, al talento per la musica. Un talento concesso per grazia di chi? Ogni volta che si pone questa domanda, si può rispondere solo con lo x: per grazia di qualcosa di insondabile. E anche qui il nome di Dio non è lontano. Così uno x si unisce all’altro: la dimensione in ultima analisi inesprimibile della musica si unisce con il talento per essa.
Ma che Dio è mai quello che concesse a Bach la grazia di essere musicista e che si manifesta come x nella sua musica? È un Dio che si manifesta in modo storicamente determinato, formato dalla storia della religione e della teologia, allo stesso modo che Bach, com’è ovvio, appartiene ad un’epoca ormai trascorsa. Ciò riguarda i testi, i generi, le forme e l’intera sintassi musicale. Oggi nessuno compone più al modo di Bach. L’epoca storica del primo Settecento tedesco, nella sua unicità, ha trovato dimora nella musica di Bach. Tutto questo è accessibile alla conoscenza. Ma come si spiega che Bach, sebbene legato ad un passato lontano, non solo non abbia perso validità, ma anzi l’abbia vista accrescersi incessantemente e ci appartenga in compiuta presenza? La musica ha la capacità di toglier di mezzo la propria temporalità nel senso del condizionamento e della collocazione storici. Tale capacità essa la conquista perché gioca. Essa è un gioco coi suoni secondo regole di gioco condizionate dal tempo e, nella cornice di questo condizionamento, inventate di bel nuovo. Questo principio regolativo forma un sistema in cui il gioco gioca sé stesso e, in quanto sistema in sé sussistente e valido, in quanto ordinamento che sussiste per sé ed è percepito per sé, mette fuori gioco il condizionamento temporale. Chi ascolti musica, antica e nuova, ne percepisce la temporalità, la fa entrare in sé, ma non sprofonda in essa, bensì nel gioco, nel sistema del suo ordinamento. Ora, decisivo per la sopravvivenza della musica, per il suo ingresso nella sfera della durevolezza, è non solo il sistema del gioco, ma anche la qualità del gioco stesso, cioè la ricchezza di informazioni percepibili coi sensi, che come gioco si realizza. Qui troviamo una volta di più un ambito situato al di qua del confine. Infatti, la qualità dell’informazione può essere riconosciuta come ricchezza; ad essa ci si può rivolgere in quanto ricchezza (anche se non in modo esaustivo), e l’indagine scientifica su Bach è, in quanto ricerca che ha per oggetto Bach, costantemente (e anche qui senza fine) a caccia di questa qualità dell’informazione.
Per il fatto di essere in grado, mediante sistema, gioco e ricchezza, di mettere fuori gioco il condizionamento temporale e di essere presente in modo del tutto immediato, la musica perde in pari tempo il proprio legame con la storia religiosa e con l’immagine della devozione, anche dove è unita ad un testo di carattere sacro. Che Bach fosse cattolico o evangelico, luterano o pietista, illuminista o libero pensatore, tutto ciò non è inscritto nella modalità d’essere della sua musica al di là del confine. Là però sta l’essenziale: lo x. In esso – per così dire – la sua musica perde ogni attributo divino, ma non Dio. Essa perde l’effabilità per divenire essa stessa l’ineffabile. Rispetto all’ineffabilità dello x, Bach non appartiene a questi o a quelli, ma a tutti. E se l’ineffabile viene chiamato Dio, anche l’ateo, mentre ascolta Bach, diviene teista. Questo non vale solo per Bach, ma per la musica in genere, se essa è davvero musica secondo sistema, gioco e ricchezza. Ma vale per Bach in misura particolare? Nella storia degli effetti prodotti dalla sua musica, nella recezione consapevole del fenomeno Bach, è riposto un fattore particolare. Al nome di Bach sono saldamente uniti il Soli Deo gloria, l’ufficio di Kantor a S. Tommaso, la messa in musica di testi cristiani; e l’ascolto della sua musica – come evidenzia l’ascolto comparativo – è sempre percezione d’un ordinamento osservabile all’interno d’una grande ricchezza, come se in ogni espressione della vita apparisse la stessa mano ordinatrice del Creatore. Ma al di là del confine i dislocamenti operati dalla storia della recezione, i confronti valutativi con altri ordinamenti musicali e l’elevazione al trono della validità non sono rilevanti. Qui rimane solo ciò che vale in genere per la musica al di là del confine, la sua ineffabilità: lo x.
Tutto quello che si è tentato sin qui di dire può essere ripensato in forma di riflessione sulla musica delle Passioni. La Passione di Cristo, la sua Crocifissione, è l’evento centrale del Vangelo e del credente cristiano. L’historia in sé è orribile. Un uomo viene tradito, imprigionato, deriso, flagellato e crocifisso. Tutto questo avviene per volontà di Dio, ed egli risorgerà: ma ciò non toglie nulla all’orrore, alla miseria e al dolore della via alla Croce e alla Passione. Mio Dio, perché mi hai abbandonato? Tuttavia la musica con cui Bach racconta la passione non è orribile, neppure dove rappresenta coi propri mezzi l’orrore, e neppure dove con tutte le modalità del suono introduce alla miseria e al dolore. Se, in generale, sia possibile (sia lecito) mettere in musica la Passione, è domanda che potremmo non stancarci mai di ripetere. Ma è una domanda che porta una volta di più oltre Bach, verso tutte le musiche per la Passione composte in passato e quelle che lo saranno in futuro. La musica è per principio ed essenza un gioco coi suoni in un sistema organizzato del gioco, in cui sviluppa la propria ricchezza estetica. In questa sua modalità d’essere è selezionata rispetto alla realtà e, anche dove si apre alla realtà, esteticizza in modo inevitabile ciò a cui si apre. L’orrore, il dolore e la sofferenza della Passione vengono da essa selezionati, allontanati dalla realtà e trasferiti nel suo mondo estetico; essa rapisce l’ascoltatore nella bellezza del proprio gioco. Bach pare aver riflettuto su questo aspetto, all’interno della dimensione musicalmente estetica, in un luogo centrale delle sue musiche per la Passione. Nella Passione secondo Matteo tutte le parole intonate da Gesù sono messe in evidenza da un accompagnamento di archi a quattro parti. Lo si è interpretato come contrassegno della sacralità di Gesù. Facendo riferimento a quest’immagine, si può anche dire che la musica – la sua bellezza e ineffabilità in quanto suono degli strumenti ad arco – rinvia al fatto che Gesù è figlio di Dio; la musica è presso di lui e presso le sue parole, proprio come Dio è presso di lui e parla attraverso lui. Ciò può essere confermato dall’unico passo in cui l’accompagnamento degli archi tace, cioè al momento delle sue ultime parole: “Eli, Eli, lama, lama asabthani?”. Però il canto che sostiene queste parole è esso stesso musica. E la domanda se si debba in genere mettere in musica la Passione, questa domanda neppure la Passione secondo Matteo può rimuoverla: tuttavia con la musica delle parole di Gesù essa accenna nella direzione di una risposta.
Tentando di rispondere a quella domanda (“se in genere…”), il senso del limite si fa una volta di più acuto. All’interno del mondo estetico si schiude, dietro a tutto ciò che è concettualmente afferrabile e conoscibile, un qualcosa di razionalmente irraggiungibile, ineffabile: lo x, per il quale – se si vuole – può essere introdotto il nome di Dio, proprio come è stato introdotto innumerevoli volte nel corso della storia umana. Considerata in questa prospettiva, e con valore universale, la musica prende anche la Passione nelle mani di Dio, là dove anche orrore, dolore e sofferenza sono in essa annullati.
(Traduzione dal tedesco di Maurizio Giani)