Alberto Mazzucato e la «mal intesa venerazione pegli autori»

Sulle riviste musicali italiane del XIX secolo, e in special modo su quelle pubblicate da editori musicali, si trovano spesso riferimenti alla prassi esecutiva. Si tratta di articoli in cui la critica alla prassi corrente può tradursi in precetti utili a correggerla o, più spesso, fornire lo spunto per scambi polemici. A questa seconda tipologia appartengono tre articoli apparsi nel 1852 sul settimanale dell’editore Ricordi, la «Gazzetta musicale di Milano», in cui si confrontano le opposte opinioni in materia espresse dalla rivista e da Alberto Mazzucato: autorevole figura di compositore, maestro concertatore alla Scala, docente e poi direttore del Conservatorio di Milano, infine tra i critici più preparati nel panorama italiano. La ragione del contendere nasce dalla rappresentazione dell’Attila di Verdi alla Scala. Nel numero del 4 gennaio,[1] un articolo non firmato si sofferma sull’esecuzione della cavatina di Odabella[2] da parte del soprano Marcellina Lotti, lamentando l’omissione della scala discendente di due ottave sulla parola «indefinito» e la sostituzione della cadenza originaria dell’adagio con «altra di cattivo gusto e di nessun effetto». Nel numero successivo,[3] giunge la replica di Mazzucato, che a quel tempo non è più collaboratore della rivista a causa di dissidi con l’editore. Egli è anche insegnante di canto, come all’epoca non di rado accade ai compositori, e segnatamente della stessa Lotti. Nella sostanza, Mazzucato interviene per giustificare le scelte (forse a lui stesso attribuibili) della cantante e dei cantanti in generale quando non nascano da un «semplice capriccio», ma dall’«intento di rendere la musica meglio adatta ai loro mezzi, onde ottenerne esecuzione migliore, migliore effetto.» In questi casi, le modifiche «non solo non devonsi condannare, ma ben all’opposto son da lodarsi, e riputarsi necessarie».

Scrive inoltre Mazzucato:

Mi spiego. Un dato effetto energico viene confidato a modo d’esempio dal compositore alla possanza di un sol (entro il rigo) o di un la di petto di una data esecutrice. Che ne avverrà quando un’altra esecutrice, la quale non possiede di petto le suddette note, ma solo di testa, e che quindi tali note saranno le sue più deboli, che ne avverrà, dico, allorché questa seconda cantatrice vorrà riprodurre il passo, quale è scritto? Ne avverrà che l’effetto energico sarà compiutamente mancato. Or, non è egli il caso di modificare il passo, servendosi a quest’uopo dei suoni più potenti di questa seconda esecutrice, diversi bensì da quelli scritti, ma idonei a rendere un effetto, se non identico, almeno analogo a quello concepito dall’autore?

Mazzucato privilegia dunque l’effetto teatrale, purché in linea con l’intendimento dell’autore, ma non necessariamente con quel rispetto assoluto della sua formalizzazione testuale che egli – compositore e docente di composizione – definisce «mal intesa venerazione pegli autori». La controreplica, che giunge immediata nel numero del 18 gennaio, fissa i termini del confronto su centralità del testo e sua realizzazione pratica che animerà il dibattito negli anni a venire. Nell’articolo, che chiude il breve scambio polemico, l’anonimo estensore stabilisce il principio (non ancora ovvio a quel tempo) che, se inadatto alle caratteristiche di una musica secondo quanto previsto dall’autore, un cantante debba astenersi dall’eseguirla, e che, di fronte al rischio di alterazioni «talvolta audaci, e talvolta sacrileghe», sia preferibile che gli spartiti restino «intatti e silenziosi nei magazzeni degli editori».[4] Considerazione tanto più significativa in quanto espressa dalla rivista di un editore musicale.

Marco Capra
Professore associato di Musicologia e Storia della Musica
Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali

Università di Parma


[1] Teatri di Milano. I.R. Teatro alla Scala, «Gazzetta musicale di Milano», X/1, 4 gennaio 1852, pp. 2-3: 2.
[2] Prologo, scena iii.
[3] Alberto Mazzucato, All’Egregio signor Estensore della Gazzetta musicale, ivi, X/2, 11 gennaio 1852, pp. 6-7.
[4] Diamo la risposta promessa nell’ultimo nostro numero alla polemica del sig. maestro A. Mazzucato, ivi, X/3, 18 gennaio 1852, pp. 9-10: 10.

1 commento

  1. Molto interessante! Del resto mi pare che il dilemma sia fedeltà alla partitura versus libertà interpretativa degli esecutori e cantanti. Siamo di fronte all’eterno problema della doppia scrittura teatrale: scrittura testuale/scrittura scenica e nel caso dell’opera i linguaggi si moltiplicano ed intersecano: musica e parole, canto ed esecuzione, capacità attoriale di entrare nel personaggio, indicazioni di regia per quanto riguarda il movimento scenico, la danza…ed ogni volta la rappresentazione si carica di nuovi e diversi significati. È la magia del teatro.

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