INTERVENTO · Conseguenze psicosociali della pandemia Covid-19: per una nuova coscienza

Ad apertura dell’annata 2021 pubblichiamo con piacere l’Intervento di una docente di Psichiatria di UniBo, che considera l’impatto della pandemia sulla vita di ciascuno di noi in quanto individui e soggetti sociali. L’argomento esula dalla sfera musicale, ma i suoi riflessi su un’arte eminentemente sociale come la musica sono intuitivi. (g.l.f.)

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Grata alla prof.ssa Giuseppina La Face per la possibilità di condividere una “goccia” di riflessione sulle conseguenze del Covid-19 sulla salute mentale, mi soffermerò non sugli effetti diretti e indiretti del Covid-19 sulla eziopatogenesi di disturbi psichici e sul loro decorso, ma sugli effetti psicosociali della pandemia. Pur non essendo oggetto della mia breve riflessione, mi sembra opportuno accennare che gli effetti diretti e indiretti del Covid-19 sulla salute psichica sono rilevanti e hanno impegnato a fondo psichiatri e ricercatori. In particolare, il rilievo pressoché ubiquitario di un’elevata incidenza e prevalenza di disturbi ansioso-depressivi nei pazienti con Covid-19 e nelle persone guarite dal Covid-19 ha confermato la centralità dei meccanismi infiammatori ed autoimmuni nella eziopatogenesi non solo dei disturbi di salute generale, ma anche psichica, riportando vivo interesse sul campo dell’indagine psicosomatica [1]. Anche gli operatori sanitari hanno registrato un incremento delle condizioni ansioso-depressive, generalmente connesse agli elevati livelli di stress derivanti dal lavoro a ritmi serratissimi e con elevati livelli di rischio professionale che la pandemia ha comportato; inoltre, certamente, molte persone hanno sofferto della precarizzazione del lavoro e dell’isolamento, condizioni che hanno comportato un incremento della prevalenza dei disturbi mentali anche nella popolazione generale [2].

Gli effetti psicosociali della pandemia Covid-19 sono stati molteplici e radicali. Cercherò di ricordarne alcuni, senza la pretesa di essere esaustiva, ma con la convinzione che essi possano aiutarci ad aprire una “nuova finestra” sul mondo. A mio avviso, alcuni dei principali effetti psicosociali della pandemia Covid-19 sono unnuovo vissuto romantico, la destigmatizzazione delle diversità e in particolare dei così detti nerds (ossia la possibilità di contemplare alternative all’‘essere glamour’, socialmente gradite); il trionfo dell’ecologismo; un nuovo senso di responsabilità e di giustizia; un bisogno in-demandabile di introspezione e di affinamento degli strumenti che ci consentono di conoscerci meglio e di operare le nostre scelte di vita, da quelle affettive a quelle professionali, nel miglior rispetto della nostra indole e dei nostri limiti; una resa incondizionata alla digitalizzazione di strumenti e processi. Di seguito, cercherò in modo sintetico di argomentare questi punti, che propongo di tracciare per delineare la nuova coscienza che la pandemia ha contribuito fortemente a definire.

Certamente il primo effetto psicosociale della pandemia Covid-19 su tutti noi è stata, come hanno sostenuto in molti, da papa Francesco a David Grossman [3], la riscoperta della vulnerabilità dell’essere umano quale condizione imprescindibile e fondamentale della natura “umana”; la consapevolezza di tale vulnerabilità diviene, pertanto, punto di forza, chiave di volta per dare senso e valore alle nostre scelte e parabole esistenziali. Alla luce della consapevolezza della vulnerabilità, il successo di un progetto esistenziale risiede non tanto nella dimensione vincente-perdente, quanto nel coraggio di alzarsi ogni giorno, uscire di casa e andare avanti in nome di scelte consapevoli compiute verso una professione che si ama, ad esempio. Mi viene in mente la statua di Nelson su un’altissima colonna a Trafalgar Square a Londra, esempio fulgido di una romantica celebrazione della forza della fragilità umana. Nelson vinse la battaglia a Trafalgar contro il fortissimo avversario Napoleone, ma fu trafitto a morte da un colpo di moschetto. A simboleggiare l’importanza del combattere per i propri ideali come strada per andare oltre alla fragilità della vita umana, gli viene regalata una posizione da cui potere per sempre osservare il mare, in cima ad un’altissima colonna. In epoca post-moderna, con le nostre accelerazioni, avevamo perso di vista il valore del percorso e il senso del limite, dimensioni con cui questa pandemia ci ha costretto a rifare velocemente i conti. Ritrovata bruscamente, la consapevolezza della nostra vulnerabilità ha contribuito alla ricostruzione di un nuovo romanticismo sociale, un romanticismo, cioè, non appannaggio di poche menti istruite, ma che elegge gli operatori sanitari, i quali hanno pagato e pagano anche con la vita la battaglia quotidiana al Covid, suoi nuovi eroi.

Parallelamente alla riscoperta della vulnerabilità, in tempi brevissimi abbiamo assistito a una vera rivoluzione sociale, dove finalmente le caratteristiche delle personalità più idiosincrasiche all’accelerazione frenetica e spietata della società post-moderna, quali la cautela sociale, la precisione, la non “facilità” al contatto fisico, la timidezza, sono divenute adattative, secondo una logica meramente evoluzionistica, poiché protettive verso il diffondersi del Covid. Tali modalità comportamentali sono passate da essere additate come eccentriche e sfavorevoli, a sagge e quindi premiali. In molti casi le persone affette da gravi disturbi mentali hanno mostrato capacità di resilienza e di adeguatezza alle circostanze anche più drammatiche e impreviste, quali la Fase 1 del nostro lock down, che inizialmente ci hanno davvero sorpreso. Essere neurotipici è dunque divenuta una possibilità, una scelta, e non solo, forse non più, la strada da favorire. Ecco, quindi, la destigmatizzazione della diversità.

Da tempo filosofi, ecologisti e ambientalisti predicano l’ormai famoso less is more, elogiano la lentezza e la possibilità di commettere errori, la necessità di consumare e mangiare slow per vivere meglio e più a lungo; ma più che gli intelligenti gridi di Greta, hanno potuto poche basi di RNA del SARS-Cov 2 a convincerci a cambiare rotta, in una sorta di rivisitazione di un graphic novel del regista Hayao Miyasaky che mai mi sarei attesa di vivere. La pandemia ha cancellato coloro che Bukowski descrive come «Gente che va su e giù per le scale mobili, negli ascensori, che guida automobili, le porte dei garage che si aprono schiacciando un pulsante. Poi vanno in palestra per smaltire il grasso» [4], e ha riportato le persone alle attività motorie in outdoor, nel tempo libero o semplicemente per gli spostamenti necessari alla vita di tutti i giorni. Il potere acerebro di un virus ci ha mostrato una volta per tutte che, come dice Alva Noë – professore di Filosofia all’Università della California a Berkeley –, non siamo il nostro cervello e la coscienza non è dentro di noi, ma è il risultato di un fare intersoggettivo e mutevole [5]. Controllare i grandi fenomeni della nostra epoca, come la migrazione, o semplicemente il nostro destino, è un’illusione decadente. Noi possiamo solo gestire e amministrare. Accontentiamoci di saperci lavare bene le mani, di mantenerle onestamente e responsabilmente pulite. Ecco, dunque, il nostro nuovo senso di giustizia.

Il tema della responsabilità individuale e di come ogni nostra piccola scelta quotidiana sia in grado di influenzare il benessere nostro e degli altri, non solo congiunti e prossimi, è uno degli altri grandi temi con cui abbiamo dovuto fare i conti. L’importanza di ponderare bene le proprie scelte, di scegliere responsabilmente se fare un viaggio o anche, semplicemente, se uscire di casa per andare a fare visita a una persona cara, sono divenuti l’ABC della nostra vita quotidiana, e sembra quasi svilente considerare tali comportamenti il risultato di DPCM; in altre parole, la politica ha dovuto confrontarsi con il vuoto pneumatico della mancanza di un’etica delle piccole cose e di un’educazione civica, che, forzatamente riscoperta, ci ha aiutati a stare e a sentirci meglio. Attraverso il rispetto della propria e dell’altrui vulnerabilità, abbiamo pertanto anche riscoperto il valore della solidarietà, della vicinanza vera, non quella di corpi assembrati, ma di menti sensibili all’ascolto. Ecco, quindi, rinato il nostro senso civico e la nostra politica.

Anche a livello intimo e personale, la pandemia e le sue conseguenze hanno avuto un impatto importante, risvegliando la necessità di introspezione e di sincerità con noi stessi. Essere stati divisi, a seconda del mestiere e della professione, in due gruppi (chi doveva o poteva lavorare in smartworking e chi no) è stata una cartina al tornasole importante per valutare se la scelta professionale compiuta fosse vocazionale o di opportunità. Aver trovato che questa condizione corrisponde a una scelta vocazionale è ciò che ha reso possibile a un medico o a un parrucchiere, ad esempio, continuare a svolgere il proprio lavoro anche in condizioni rischiose senza che ciò venisse vissuto come una costrizione intollerabile. Allo stesso modo, a molti professionisti non è pesato dover lasciare gli uffici e ritirarsi in casa per svolgere il proprio lavoro di tecnici, amministratori, commercialisti, giornalisti, per fare alcuni esempi. Non è mancato chi, in un gruppo come in un altro, si è invece sentito profondamente fuori posto nella collocazione conferita da questa impietosa bisettrice che la necessità di relazione con persone in carne e ossa nello svolgimento della propria professione ha tracciato. La pandemia è stata, dunque, una delle più formidabili e radicali occasioni per una profonda revisione delle proprie scelte e convinzioni. La pandemia ci ha aperto gli occhi su molte cose: come il bambino che nella favola di Andersen dice con innocenza e immediatezza “il re è nudo”, abbiamo dovuto renderci conto della sostanziale povertà del sistema “capitalismo occidentale”, che, con i negozi stracolmi di costosissimi vestiti, non è riuscito a fornirci durante la prima fase della pandemia quegli unici e basilari indumenti e dispositivi di protezione individuale senza i quali non era possibile uscire di casa, le mascherine, per scelte di mercato che ne avevano ridotto e esternalizzato in paesi extraeuropei la produzione.

Infine, abbiamo disarmato una volta per tutte i dogmi e le paranoie anti-tecnologia che gettavano diffidenza sulla digitalizzazione di molti processi e strumenti. La pandemia Covid-19 ha fatto il punto rispetto alla necessità di informatizzare la scuola e la sanità per renderle davvero accessibili a tutti; e ciò non significa fare a meno di medici e maestri, ma raggiungere il maggior numero possibile di persone con gli strumenti che lo rendono possibile, come l’e-learning e la telemedicina. Nel caso della psichiatria, ancora più che di telemedicina abbiamo avvertito il bisogno di correggere alcune posizioni che paiono sempre più distopiche, ricorrendo a un’operazione che i sostenitori della così detta psichiatria culturale sono, d’altro canto, soliti fare: rileggere valutazioni diagnostiche e giudizi di alterazione patologica del funzionamento mentale alla luce dei correttivi culturali [6]. I così detti millennials, o meglio i più giovani tra loro, cioè la generazione di coloro che sono nati alla fine del secolo scorso e che oggi hanno vent’anni, sono evidentemente nati nelle condizioni di una grave incomunicabilità con le generazioni che li hanno preceduti, avendo essi una lingua madre digitale, con cui gli analogici hanno invece fatto i conti solo dopo i vent’anni. La digital generation è stata ad oggi “curata” secondo dispositivi culturalmente orientati alla generazione meccanica o analogica, di cui anche io faccio parte. Oggi, grazie all’accelerazione che tutti abbiamo dovuto compiere per affinare meccanismi di comunicazione a distanza nella società pandemica, abbiamo sperimentato come per molti giovani la relazione non può prescindere dall’utilizzo di strumenti digitali; la pretesa di curarli o istruirli da dietro una cattedra può essere problematica e talora prepotente. Il nostro aggiornamento è solo iniziato, ma è questa una strada da cui non torneremo, per fortuna, indietro [7].

La speranza è che questa rivoluzione culturale, questa nuova coscienza del mondo non causata, ma solo accelerata dagli effetti psicosociali della pandemia Covid, apra una strada per oltrepassare il dualismo cartesiano e la logica aristotelica che ancora tanto condizionano il metodo scientifico nella ricerca delle cause delle malattie e dei loro rimedi; e che si possa, con i tempi e timori che saranno necessari, andare verso una nuova comprensione del disagio psichico e della salute mentale. Tale comprensione non parte da una dia-gnosi ma da una a-gnosi, e tramite l’ascolto (on o off line) libero da pregiudizi e aspettative, può, di per sé, essere terapeutica.

Romantici, ambientalisti, sobri, introspettivi, responsabili e digitali riprenderemo le nostre traiettorie con più lentezza e ponderazione. E magari in compagnia di un cane con cui passeggiare.

  1. Jonathan P. Rogers, Edward Chesney, Dominic Oliver, Thomas A. Pollak, Philip McGuire, Paolo Fusar-Poli, Michael S. Zandi, Glyn Lewis, Anthony S. David, Psychiatric and neuropsychiatric presentations associated with severe coronavirus infections: a systematic review and meta-analysis with comparison to the COVID-19 pandemic, «The Lancet Psychiatry», VII/7, 2020, pp. 611-627, doi: https://doi.org/10.1016/S2215-0366(20)30203-0.
  2. Nina Vindegaard, Michael E. Benros, COVID-19 pandemic and mental health consequences: Systematic review of the current evidence, «Brain, Behavior, and Immunity», LXXXIX, 2020, pp. 531-542, doi: https://doi.org/10.1016/j.bbi.2020.05.048.
  3. David Grossman, Dopo la peste torneremo a essere umani, «La Repubblica», 19 marzo 2020.
  4. Alva Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010.
  5. Charles Bukowski, Il Capitano è fuori a pranzo, Milano, Feltrinelli, 1998.
  6. Roberto Lewis-Fernández, Neil K. Aggarwal, Laurence J. Kirmayer, The Cultural Formulation Interview: Progress to date and future directions, «Transcultural Psychiatry», LVII/4, 2020, pp. 487-496, doi: https://doi.org/1177/1363461520938273.
  7. Fiore Bello, Emanuele Caroppo, Ci salveremo insieme. Perturbazioni, incertezze e opportunità al tempo del Covid, Roma, Alpes Italia, 2020.

Ilaria Tarricone MD, PhD

Centro di Studi e Ricerche “Bologna Transcultural Psychosomatic Team (BoTPT)”, Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, UNIBO; SPDC Malpighi, DSM-DP Ausl Bologna.

3 commenti

  1. Bravissima come sempre Ilaria. Una analisi molto puntuale con rigore scientifico e una mano sul cuore. Le mando un abbraccio

  2. Articolo veramente gradito per avere evidenziato nuove prospettive esistenziali in ciascuno di noi. Le quali prospettive emergono in conseguenza di questa grave sciagura che si è abbattuta sull’Umanità. La quale sciagura non ha prodotto solo danni in termini di vite umane, ma anche danni sul piano psichico ed esistenziale su ciascun individuo e danni economici.

  3. Eugenio Gabriele Raimondo

    Sono un assiduo lettore della rubrica “Gocce”!
    Mi sia permessa, gentilmente una riflessione critica sugli ultimi due “effetti psicosociali della pandemia” presentati dall’autrice nel suo intervento.
    In primis, una considerazione riguardo allo “in-demandabile bisogno di introspezione” – ovvero – al “risveglio di quella ‘necessità di introspezione e di sincerità con noi stessi’”:
    la realtà dei fatti, non ci vede affatto divisi in “due gruppi” (a seconda del mestiere e della professione). Se vogliamo veramente essere sinceri con noi stessi, quei gruppi rappresentano una netta minoranza!
    Esiste un insieme di persone (ben più numeroso), di professionisti, lavoratori e collaboratori operanti (o che operavano) nei più svariati ambiti. Persone che – in piccola parte – svolgevano un’attività frutto di una già ponderata “scelta vocazionale” o – nella maggior parte – avevano accettato un mestiere non per vocazione ma per necessità; non per “opportunità” (o peggio ancora opportunismo) ma , semplicemente, per permettersi di portare il pane a tavola, per guadagnarsi dignitosamente la pagnotta! Ed ho usato verbi al passato (svolgevano ed avevano accettato) perché oggi, molta di quella gente non ha più la possibilità di portare avanti quell’attività, costretta al licenziamento, alle dimissioni e persino al fallimento! Persone che si vedono negare quella fondamentale opportunità (questa sì!) di vita, proprio a causa delle conseguenze provocate dalla pandemia. Persone che rappresentano veramente l’epicentro degli “effetti psicosociali” causati dal coronavirus. Persone che vorrebbero, più di ogni altra cosa al mondo, “alzarsi ogni giorno, uscire di casa e andare avanti” per compiere il proprio dovere! Ma che sono impossibilitati non per mancanza di coraggio, ma perché si trovano preclusa l’uscita di casa e sono socialmente emarginati ed abbandonati!
    Infine, in riferimento alla “digitalizzazione” bisognerebbe – forse – porsi delle domande:
    se ci siamo – giustamente – resi conto della “povertà del sistema ‘capitalismo occidentale’”, perché mai dovremmo attuare una “resa incondizionata alla digitalizzazione di strumenti e processi” creati da quello stesso sistema che da essi si alimenta? Perché non potremmo scegliere di utilizzare questa digitalizzazione in modo attento e parsimonioso, consapevoli dell’utile ausilio che ci ha fornito, ci fornisce e può fornirci? Perché dovremmo avere l’aspirazione o la pretesa (questa sì prepotente ed inefficace) di curare o istruire qualcuno ‘da remoto’? Non abbiamo – proprio in questi tempi difficili – compreso che ciò non può funzionare né in campo sanitario, né in ambito scolastico? La storia non ci ha insegnato che – ad esempio – l’istruzione non può prescindere dall’interazione reale, essenziale e dal vivo, tra discenti che devono stare (il più possibile composti) seduti ai propri banchi e docenti che devono stare (il più possibile attivi) dietro una cattedra?
    Allora, spero con tutto me stesso che si possa risvegliare in noi un ritrovato e rinnovato realismo!
    E spero che, anche quando ci sembrerà impossibile portare avanti quelle dignitose e ponderate scelte di vita, potremo continuare comunque quel nostro cammino sulla retta via!
    L’impossibilità diventerà esigenza!
    Una volta, un grande uomo disse: “Siamo realisti, esigiamo l’impossibile!”. Mai come ora un’affermazione che ritorna ricca di forza e speranza!
    Con l’augurio di ritrovarci su quella retta via – lungo il nostro cammino – “romantici, ambientalisti, sobri, introspettivi, responsabili e digitali” come e più di quanto lo eravamo già! Ma ancor di più realisti! E, magari, a braccetto con quell’adorabile vecchietto che ha ancora tanto da insegnarci!
    (Immagine, certo, meno triste di quella a chiusura dell’intervento in questione!!!)

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